I requisiti necessari per giocare a basket a livello competitivo superano di gran lunga quelli necessari ad eseguire le normali attività quotidiane e anche a quelli richiesti nella maggior parte degli altri sport.
Una buona condizione di base da sola non può essere sufficiente.
Una buona elasticità, un buon allenamento del core e la forza sono elementi essenziali per la pratica della pallacanestro, si rende necessario sviluppare anche qualità associate ad una elevata prestazione atletica come:
Tutte e quattro queste qualità atletiche sono in parte determinate dal proprio bagaglio genetico e qualunque inesperto telecronista di pallacanestro definirà “atleta naturale” quei giocatori un po’ più dotati nella media.
Veramente troppi giocatori dotati geneticamente hanno permesso che quelle loro capacità si deteriorassero, mentre altri si sono spinti a limiti estremi del proprio potenziale atletico.
In altre parole se si vuole migliorare la propria velocità, potenza, agilità e coordinazione lo si può fare.
LA VELOCITA’
Velocità, rapidità e abilità nel saltare sono le qualità atletiche considerate più importanti nel basket.
I giocatori che mostrano movimenti eleganti, fluidi, agili ed esplosivi sul campo nel confronto degli avversari sono gli stessi che, generalmente, eccellono in questo sport.
Essi hanno sviluppato abilità superiori nei movimenti fondamentali che consentono loro di spostarsi dal punto A al punto B molto rapidamente.
Le componenti
La velocità ha due componenti di base:
la lunghezza del passo
(la distanza coperta da un solo passo)
la frequenza dell’andatura
(il numero di passi effettuati nell’unità di tempo)
La cadenza alla quale l’atleta muove le sue braccia e le sue gambe e la distanza che ogni andatura copre, determina la velocità di un atleta.
Idealmente un giocatore adotterà un alto livello di frequenza per accompagnare un’ampia andatura.
Questo risulta valido anche per movimenti diversi dallo sprint in linea retta, come ad esempio i movimenti laterali, gli arretramenti e i movimenti combinati della pallacanestro.
Tutti i giocatori hanno delle limitazioni personali che riguardano la velocità e il come muovono braccia e gambe.
Infatti sprinter di fama mondiale e corridori di medio livello sono sorprendentemente simili in termini di frequenza di andatura.
Dato per scontato che ogni atleta potrebbe migliorare la frequenza dell’andatura, da un punto di vista di risparmio del tempo, un maggiore progresso dello sviluppo della velocità viene ottenuto mettendo in evidenza il progredire di un’andatura “esplosiva”.
Importante assicurarsi, però, di non sacrificare la frequenza dell’andatura solo per aumentare la lunghezza del passo.
Se il più grande fattore di limitazione dello sviluppo della velocità è la lunghezza del passo, perché l’atleta allora non può correre semplicemente con un passo più lungo?
Credo che la risposta è che quello che l’atleta guadagna in lunghezza dell’andatura è controbilanciato da una perdita di efficienza nel movimento.
Chiunque può mettersi a correre con un passo più lungo, ma movimenti di scavalcamento, saltelli, oscillazioni e una frequenza ridotta di passi quasi sempre producono un’andatura a passo più lungo a scapito della velocità.
I tre punti chiave per migliorare la lunghezza dell’andatura sono:
Schemi di movimento fondamentali come il correre, il saltellare, lo schivare, il cambiare direzione, il saltare, il saltare in alto e il correre all’indietro sono comuni nel gioco del basket.
Una volta che si conosce l’importanza della specificità e si vuole sviluppare un’andatura più efficace ed ampia, c’è bisogno di includere un programma di esercitazioni ed attività tese al miglioramento della velocità e della rapidità nel piano di allenamento di un atleta, in modo da migliorare anche i movimenti specifici del basket ed incrementando l’appropriato sistema di energia nello stesso tempo.
In quest’articolo ho fatto riferimento ad appunti e concetti, in cui credo, di grandi preparatori fisici della NBA oltre che a teorie sperimentate di alcuni preparatori italiani.
In questo articolo vorrei portare in evidenza un concetto molto interessante sviluppato da alcuni autori riguardo alla specificità degli apprendimenti, ovvero quello dell’ipotesi del contesto-visivo.
Dopo una breve introduzione sul concetto di percezione visiva legata al movimento andremo ad analizzare uno studio interessante proposto dal gruppo di ricerca di A. Schmidt presso l’Università della California a Los Angeles e pubblicato sul Journal of Sport and Exercise Psychology nel 2008.…
Introduzione
Quando si parla di specificità si affronta un argomento molto complesso che richiede l’analisi di diverse componenti del movimento.
Frans Bosch definisce la specificità di un movimento (che poi si riflette nella sua trasferibilità) su cinque dimensioni, una delle quali riguarda quella percettivo-sensoriale.
All’interno di questa dimensione ritroviamo la percezione propriocettiva delle forze, delle posture, dei movimenti, e anche la percezione dell’ambiente circostante.
L’ambiente circostante è caratterizzato da due tipologie di informazioni.
Le “vuote” che devono essere processate dal cervello per far si che acquisiscano di significato.
Quelle che invece possiedono già un significato e sono percepite grazie a quella che viene definita “percezione diretta”, attraverso processi automatici ed inconsapevoli.
LA VIA DEL COSA E LA VIA DEL DOVE
Le visualizzazioni di oggetti che devono essere convertite in percezione nel cervello vengono solitamente definite “il cosa” del processo d’informazione.
Oltre al “cosa” esiste anche “il dove” dell’informazione, l’informazione del movimento, che invece è processata dal flusso dorsale della corteccia visiva.
Quello che sorprende è quanto le due vie siano effettivamente separate.
Il “cosa” dell’informazione viaggia lungo la via parvocellulare, mentre quella del “dove” lungo quella magnocellulare.
Il risultato di questa distinzione nelle vie del processo è che vi sia una significativa differenza tra i due flussi d’informazione.
Il “cosa” dell’informazione viene percepito consapevolente, mentre questo è in parte impossibile nel caso del “dove” dell’informazione, che è processato inconsapevolmente. (F.Bosch)
La via del “dove” è ultimamente conosciuta anche come la via del “come”.
Un termine che enfatizza la forte correlazione tra le informazioni visive sul movimento e la progettazione del movimento automatizzato controllato inconscio.
LE INFORMAZIONI DELL’AMBIENTE CHE GIÀ INCLUDONO LE INFORMAZIONI
Proprio come il “dove” dell’informazione, la percezione-diretta dell’informazione è principalmente processata inconsapevolmente.
LO STUDIO DI SCHMIDT
Questo articolo affronta lo spinoso e sempre molto acceso confronto tra il concetto di generalità e specificità nelle teorie dell’apprendimento e del controllo motorio.
Da sempre esiste questa dicotomia tra le teorie che sostengono l’esistenza di modelli generali di movimento.
Possibile poi attingere per lo sviluppo di abilità più specifiche, e le teorie che invece identificano nella specificità il processo migliore per l’acquisizione di abilità.
Nella parte iniziale dello studio vengono presentate due ricerche effettuate su giocatori di basket che identificano una caratteristica molto importante dell’apprendimento:
la specificità del contesto che determina i comportamenti.
Ricerca 1
La prima ricerca è stata effettuata su giocatori maschi della NCAA (Schmidt, Lee, & Young, 2005) e consisteva nel farli tirare a canestro da distanze sempre maggiori, comprese tra 9 e 21 piedi.
La tipologia di tiro che veniva richiesta era quella che prevedeva entrambi i piedi a terra, tipica del gesto del tiro libero.
L’ipotesi di partenza era che all’aumentare della distanza sarebbe aumentata la percentuale di errore, ed in effetti questo si verificò puntualmente.
L’aspetto interessante della ricerca è che alla distanza precisa di 15 piedi, quella del tiro libero (gesto tecnico molto ripetuto nel gioco del basket poiché previsto dal regolamento) il valore ottenuto si discostava da quella che era la previsione attesa.
Dimostrando un valore “anomalo” rispetto alle altre distanze che invece rispettavano la predizione (vedi figura 1).
Perché succede questo?
L’ipotesi degli autori fu quella appunto di un adattamento specifico a quel tipo di gesto, grazie alle innumerevoli ripetizioni effettuate durante la quotidiana pratica della disciplina.
Ricerca 2
La seconda ricerca presentata nella prima parte dell’articolo (Keetch et al., 2005) fu condotta invece su giocatrici femmine sempre di alto livello in cui gli autori, sulla base dei risultati del precedente studio.
Volevano verificare se al variare della tipologia di tiro, in questo caso inserendo un salto durante l’esecuzione, si verificasse la stessa cosa vista precedentemente.
Ripeterono quindi l’esperimento facendo tirare le giocatrici sia in modalità “tiro libero” che in modalità “tiro in sospensione”.
Nella figura 2 notate quello che si è verificato.
Solo nella modalità di esecuzione con i piedi a terra si verificò nuovamente questa differenza rispetto alla predizione.
Dimostrando un’altra volta la specificità di questo apprendimento che solo se eseguito in quel preciso modo manifestò un risultato maggiore grazie alle numerose volte che è stato praticato.
L’inserimento di una variazione come quella del salto impedisce alle giocatrici di attingere a quello specifico apprendimento e sfruttare l’abilità speciale del tiro dai 15 piedi.
CHE FINE HA FATTO IL MODELLO GENERALE DI MOVIMENTO?
Capite bene che questi risultati rendono difficile la vita a tutte quelle teorie che tendono a considerare l’esistenza di un modello generale di movimento dal quale poi si specializzino alcune forme di esso.
In questo caso la dimostrazione del fatto che una semplice variazione, come la presenza di un salto durante il movimento, abbia di fatto annullato “l’esperienza” di quella specifica tipologia di tiro.
Ci porta a considerare molto difficile la trasferibilità tra due gesti diversi, anche solo per qualche dettaglio, figuriamoci per quelli molto diversi tra loro.
Se esistesse uno schema di movimento generale del “tirare a canestro”, o addirittura semplicemente del “lanciare” diventerebbe difficile spiegare i risultati appena mostrati.
Questi risultati suggeriscono che anni di pratica sulla linea del tiro libero:
producono un’abilità che ha uno specifico vantaggio di controllo del movimento a quella particolare distanza
fornisce poco o nessun vantaggio rilevabile per qualsiasi altra distanza
indipendentemente dalla sua vicinanza alla linea di tiro libero.
L’IPOTESI DEL CONTESTO VISIVO
Ora le spiegazioni potrebbero essere due sul perché si sia manifestato questo specifico apprendimento.
Una che potremmo definire “ipotesi dei parametri appresi”, ovvero il fatto che gli atleti avendo ripetuto molte volte in carriera questo gesto specifico abbiano imparato esattamente la gestione dei parametri di movimento per eseguirlo al meglio:
quantità di forza,
velocità della palla,
velocità di estensione delle braccia,
grado di flessione delle ginocchia, ecc…
L’altra spiegazione invece la definiamo “ipotesi del contesto visivo”, ovvero il fatto che questo specifico apprendimento dipenda dall’aver sviluppato una comprensione del contesto estremamente precisa riguardante quindi:
la presenza del tabellone,
l’angolo di visuale rispetto al canestro,
tutto quello che riguarda la visione da quella specifica distanza in quel punto specifico del campo da basket.
Come fanno gli autori a stabilire quale delle due ipotesi sia la più probabile?
Conducono uno studio in cui a delle giocatrici di basket di alto livello viene chiesto di tirare a canestro dalla distanza di 15 piedi:
ma da diverse angolature, non solo da quella del tiro libero (90° rispetto al canestro).
Le giocatrici dovranno tirare a canestro da:
3 angolature diverse a sinistra dal canestro
(45°, 60°, e 75°)
tre angolature diverse a destra dal canestro
(105°, 120°, e 135°)
Se fosse confermata l’ipotesi dei parametri appresi non si dovrebbero registrare differenze poiché essendo la distanza la medesima, anche i parametri restano gli stessi.
Se fosse invece confermata l’ipotesi del contesto visivo dovremmo aspettarci dei risultati diversi poiché a quelle angolature cambierebbero le informazioni visive percepite dalle giocatrici durante l’esecuzione del tiro.
I risultati sono mostrati nella figura 3.
Soltanto nella posizione dei 90° rispetto al canestro, quella cioè specifica del tiro libero nel basket si registra un performance migliore di quella predetta.
Dimostrando come non sia esistente di per sé un’abilità legata ai parametri del movimento (aver appreso quanta forza, quale velocità, ecc) ma invece un’abilità estremamente legata alla posizione in campo ed alle informazioni disponibili da quella specifica posizione.
CONCLUSIONE
Questo studio ci da conferma di quanto nella matrice di specificità sia presenta una dimensione di carattere percettivo-sensoriale.
Quando vogliamo allenare qualcosa di “specifico” non possiamo non considerare il contesto nel quale stiamo riproducendo quel gesto.
Non possiamo non considerare le informazioni visive a disposizione dell’atleta come un elemento fondamentale dell’apprendimento.
Non esistono lavori specifici fatti in zone di campo diverse da quelle reali, con distanze diverse da quelle reali, in posizioni di campo diverse da quelle reali.
La dimensione di specificità ci obbliga a definire “specifico” soltanto ciò che
…già durante la prima infanzia è possibile individuare oltre cento differenze tra i maschi e le femmine:
la differenza riguarda i due emisferi cerebrali.
Oggi si conosce che in entrambi i sessi la parte sinistra è specializzata nel linguaggio e nelle funzioni logiche, mentre quella destra è specializzata nelle funzioni emotive, affettive e percettive.
I due emisferi sono collegati da un ponte di fibre nervose che consente ai due emisferi di scambiarsi le informazioni.
Le ultime ricerche
Ultimamente alcune ricerche hanno dimostrato che questo ponte nelle femmine è molto più voluminoso rispetto ai maschi e ciò comporta una maggiore integrazione tra le funzioni dei due emisferi e quindi una loro minore reciproca autonomia.
Questo permette alla femmina di mutare più facilmente i propri punti di vista e di interagire meglio con l’ambiente.
La femmina utilizza in misura maggiore l’emisfero destro che le permette di compiere azioni mentali in parallelo ed è più legato alla sfera emozionale e al linguaggio analogico.
E’ sicuramente più intuitiva del maschio perché il suo cervello è meno rigido del maschio.
Le femmine hanno la capacità di riconoscere azioni intuitive in soli 200 millisecondi, mentre i maschi sono molto più lenti.
Da studi recenti risulta che le femmine utilizzano entrambi gli emisferi, mentre i maschi ne utilizzano uno solo:
percezione spaziale, esatta sequenza delle azioni da compiere.
La femmina nello spostarsi nello spazio ha bisogno di punti di riferimento mentre il maschio riesce spesso ad andare a intuito.
Le femmine sono migliori dei maschi nelle funzioni del linguaggio, mentre i maschi sono più dotati delle femmine per:
i ragionamenti matematici e meccanici,
nei compiti visivi,
nell’immaginare la traiettoria di un oggetto che si sposta o è lanciato.
La femmina è molto più resistente del maschio:
agli stress sia in campo fisico che fisiologico,
ha una attività di comunicazione e di comportamento sociale migliore rispetto al maschio,
è più rapida e completa
perché la sua natura le consente una migliore integrazione tra pensiero ed emotività.
Purtroppo sono i genitori a differenziare maschi e femmine, imponendo una differenza culturale (es. giocattoli, giochi e giochisport per i bambini e per le bambine).
E’ una questione di cultura motoria e sportiva!
Nel Minibasket
Per quanto riguarda il Minibasket a 6 anni esistono già differenze e disparità tra maschi e femmine.
La bambina ha minori disponibilità per quanto concerne la coordinazione senso-motoria, specialmente negli aspetti dinamici (ricevere e passare la palla in movimento) e per quanto riguarda la coordinazione dinamica generale.
La femmina durante il gioco è più fantasiosa, può percepire una serie di variabili e spesso prende decisioni importanti con un’alta probabilità di successo.
Nei gruppi misti le femmine sono meglio dei maschi dal punto di vista motorio, fanno amicizia più facilmente anche con i maschi (che non vogliono assolutamente giocare con le femmine), i maschi invece sono più aggressivi, scoordinati e impulsivi.
Le femmine possiedono una maggiore mobilità articolare e un miglior equilibrio rispetto ai maschi, sono meno coordinate dei maschi per quanto riguarda il lanciare e il ricevere.
Hanno paura del contatto e del “touching” sulla palla, sono meno aggressive dei maschi, sono uguali ai maschi per quanto riguarda il controllo della respirazione e la strutturazione spazio-tempo.
Fino a 11 anni la differenza tra maschi e femmine, per quanto riguarda la forza, è minima, poi a partire da quest’età l’incremento è maggiore nei maschi.
Dopo la pubertà i maschi hanno in media una forza che è di circa il 40% superiore a quella delle femmine.
Il Minibasket femminile
In Italia negli ultimi anni c’è stata una limitazione nell’avviamento delle bambine al Minibasket, in quanto ritenuto dai genitori un giocosport adatto ai maschi e per molte famiglie per le femmine è meglio la pallavolo, la danza, la ginnastica artistica, il pattinaggio, ecc.
E’ un discorso culturale, l’attività sportiva è per tutti, maschi e femmine indiscriminatamente!
Molte regioni “faro” nel Minibasket e nel basket giovanile femminile negli anni ’80-’90 e 2000:
Lombardia,
Emilia-Romagna,
Veneto,
Friuli Venezia Giulia,
Lazio,
Sardegna,
Puglia,
Piemonte, ecc.
oggigiorno hanno pochissime “adepte”, il Minibasket femminile e il basket giovanile non sono più “appetibili” e sicuramente non si risolve il problema con:
Tanti anni da capo allenatore di squadre senior hanno fortificato in me la convinzione che avere uno staff tecnico di alto livello sia la base imprescindibile per impostare una o più stagioni proficue per il mio lavoro,…
…per il lavoro dei miei collaboratori, per il miglioramento tecnico-fisico dei giocatori che ho a disposizione e per l’ottenimento dei risultati che ogni club legittimamente si aspetta.
Introduzione
Cosa siamo noi allenatori se non manager a cui viene richiesta la capacità di saper utilizzare al meglio le risorse umane che gli vengono messe a disposizione ?
Usare le capacità tecniche dei giocatori, per dare un gioco alla squadra, che non sia solo imposto ma che prenda spunto da ciò che i tuoi giocatori sanno fare meglio, è l’unico modo, a mio modo di vedere, per riuscire ad ottenere un risultato tecnico il più vicino possibile al reale potenziale della squadra.
Allo stesso tempo, saper utilizzare i componenti dello staff, secondo le proprie attitudini e fornendo loro le giuste motivazioni che nascono dal reale coinvolgimento nelle scelte e nel lavoro quotidiano, è la via migliore per far si che chi collabora col coach diventi un reale valore aggiunto.
Per ultimare il discorso generale prima di entrare nel merito, vale la pena specificare che le condizioni di professionalità e di organizzazione delle società per cui si lavora sono talmente diversificate.
E’ impossibile per me dare dei concetti comuni a tutti per cui mi limiterò ad indicare i criteri che ho seguito nelle mie esperienze lavorative.
Formare uno staff
Ho sempre cercato di avere al mio fianco persone conosciute direttamente o attraverso le informazioni di colleghi.
Non sempre è possibile portare con sè uno o più componenti dello staff.
E’ quasi sempre possibile, però, conoscere a fondo i collaboratori che una società ti propone attraverso le loro esperienze pregresse.
Vanno, comunque, valutate anche sulla base delle proprie idee sulle persone che forniscono le informazioni.
Costruire una buona rete informativa è un aspetto fondamentale del lavoro di un allenatore perché può fornire i mezzi per poter scegliere un giocatore o un collaboratore riducendo al minimo la possibilità di errore.
I ruoli fondamentali per formare uno staff che sia in grado di coprire la totalità degli aspetti necessari sono tre, anche se qualcuno ha la fortuna di poterlo arricchire di ulteriori figure funzionali alla logistica dell’allenamento (appoggi, videoripresa, scouting ecc.).
La caratteristica comune che cerco nei due assistenti è essenzialmente riferita ad una buon livello di conoscenza tecnico-tattica mentre per tutte le altre qualità mi baso su criteri di complementarietà.
Almeno uno dei due deve:
essere un professionista per ragioni di tempo utilizzabile
avere buone conoscenze informatiche e capacità di match analysis
per lavorare sui video propri o degli avversari
avere inclinazione verso il lavoro individuale di miglioramento dei giocatori
essere un ex giocatore di buon livello
perché molti di loro sono in grado di percepire umori e situazioni di possibile rischio nei rapporti tra giocatore e giocatore e tra giocatore e staff.
Inoltre sanno guardare le cose dalla prospettiva dell’atleta oltre che da quella dell’allenatore.
La scelta del preparatore fisico
Nella ricerca del preparatore tendo a guardare, con molto interesse,:
chi è in possesso di una conoscenza approfondita della pallacanestro e delle sue specificità tecnicofisiche
chi ha una buona dose di esperienza settoriale
colui che ha la capacità di saper mediare tra le proprie esigenze di carichi e tempi di lavoro e quelle dell’allenatore.
Questo ultimo aspetto è secondo me essenziale.
Tanti anni di carriera mi hanno insegnato che qualsiasi allenatore/preparatore che si rispetti è portato ad “accaparrarsi” più ore di allenamento possibili a scapito dell’altro aspetto del lavoro.
Saper mediare con razionalità evita squilibri dannosi e ottimizza la qualità del lavoro.
Tutto quello che ho scritto in relazione alle competenze ed alle qualità che cerco nei miei collaboratori è importantissimo:
Nota della redazione
Nella seconda parte dell’articolo, che pubblicheremo la settimana prossima (giovedi 2 dicembre 2021), si entrerà nell’ambito delle dinamiche collaborative all’interno dello staff nei vari periodi dell’anno.
Negli anni 80-90 era molto facile individuare il ruolo di un giocatore.
Grazie alle sue caratteristiche tecniche e fisiche, infatti, era evidente, osservando il roster di una squadra, chi giocasse nelle varie posizioni, e quale fosse il contributo di ogni singolo componente alla causa della squadra.
Il Playmaker doveva essere soprattutto un giocatore altruista, in grado di “sistemare” i propri compagni in campo, prevedere le situazioni ed essere il braccio dell’allenatore.
La Guardia non poteva prescindere da essere un realizzatore, principalmente tiratore, in grado di mettere a referto tanti punti;
L’Ala piccola era colui che toccava meno la palla tra gli esterni, finalizzatore, spesso tiratore dagli scarichi, intorno ai 2 mt dava una buona mano ai rimbalzisti;
Proprio l’Ala grande era il ruolo che forse più si stava sviluppando e cambiando.
Spostava gli equilibri, playmaker aggiunto, rimbalzista, un vero e proprio lusso.
Non parliamo di quelli che avevano la doppia dimensione:
gioco spalle a canestro e fronte, negli anni 2000 ampliarono sempre di più il loro raggio d’azione incominciando ad avere anche tiro da 3 punti;
Infine il Pivot, giocatore più alto, intorno ai 210 cm, doveva riempire l’area, intimidire in difesa, fare blocchi in attacco, prendere rimbalzi e non lamentarsi se faceva pochi tiri
Anche il giudizio degli addetti ai lavori era tarato su determinate convinzioni:
Un playmaker realizzatore non era un buon regista,
il lungo con tiro dai 5/6 metri era troppo perimetrale,
l’ala piccola doveva giocare correndo sui blocchi e facendosi trovare negli angoli
non dare “fastidio” nel trattare la palla.
Il cambiamento
Negli anni 2000 le cose cominciarono a cambiare.
Sempre più giocatori in grado di coprire due ruoli: i
l playmaker divenne uno dei migliori realizzatori delle squadre
le guardie erano anch’esse dei costruttori di gioco
da qui la definizione di un nuovo ruolo:
La stessa ala piccola deve avere ora nel suo bagaglio tecnico il gioco spalle a canestro per poter sfruttare la sua altezza ma anche per scalare nello spot di 4.
In verità non erano neanche poche le squadre che utilizzavano nella posizione di ala un’altra guardia, situazione tattica che permetteva di avere tre trattatori di palla ed essere meno prevedibili.
Probabilmente il ruolo di centro era l’unico che continuava ad avere una sua collocazione ben precisa sia tecnicamente che tatticamente, sicuramente però più atleta e verticale e con maggiore tecnica, soprattutto nelle ricezioni dinamiche.
è il momento dell’utilizzo quasi esclusivo dei pick&roll come arma principale dei vari attacchi, ed avere un efficace rollante in grado di chiudere i triangoli diventa necessario.
Sicuramente un punto di riferimento per il nostro sport, dove spesso è massima l’evoluzione dei giocatori dal punto di vista tecnico, ma soprattutto fisico.
La velocità del gioco, lo sviluppo atletico dei giocatori, le regole tattiche ma anche il passaggio dall’università di giocatori sempre più giovani ed acerbi tatticamente e ancora in fase di completamento tecnico, ci presentano squadre costruite per concetti e per caratteristiche dei giocatori piuttosto che per ruoli tattici.
Non si cerca il playmaker, il centro o l’ala grande, ma il tiratore, il difensore, il “facilitatore di gioco”, il lungo che apre le difese con il tiro da fuori.
giocatore che “inizia” l’azione, realizzatore dinamico in grado di creare per i compagni attaccando il canestro,
il tiratore 3D
tiratore da tre punti e gran difensore
il popper
colui che si apre dopo una blocco dilatando le spaziature
senza dimenticare il giocatore all round
colui che è in grado di portare palla ma anche essere il miglior rimbalzista e avere la doppia dimensione
In quest’ottica la risposta alla nostra domanda circa l’esistenza o meno dei ruoli nella pallacanestro moderna è:
Infatti si va verso un quintetto con giocatori fisicamente uguali e tutti pericolosi con la palla in mano.
Il rovescio della medagli di questa “evoluzione”
Il gioco tranne alcune squadre è molto standardizzato.
Si fa fatica a riconoscere un sistema di gioco diverso dagli altri.
Le fortune di una partita ma anche di un’intera stagione dipendono dalle singole giocate e sempre meno da un gioco corale e di letture (da qui la costruzione dei super-team).
Non è un caso che quando arrivano le partite decisive per vincere un campionato, coloro che hanno nel roster ancora un playmaker, un centro e giocatori in grado di leggere le situazioni hanno più possibilità di raggiungere i propri obiettivi.
Le squadre migliori sono quelle con le letture più evolute, dove le giocate dei singoli sono delle espressioni di talento all’interno di un gioco corale.
Al di là della cifra tecnica, per me va rispettata una regola che riguarda tutte le dinamiche di gruppo, in particolar modo per quei gruppi che sono formati per il raggiungimento di obiettivi (orchestre, militari, squadre) e questa regola, piaccia o meno, ha a che fare con il concetto di gerarchia.
Milano è un’orchestra di splendidi esecutori ma con un unico difetto:
Un piccolo difetto che sul campo diventa macroscopico specie quando deve compattarsi nelle fasi decisive della battaglia quando ogni piccola decisione può portare a vincere o perdere.
E questo non lo puoi cambiare o modificare in due giorni.
O lo hai individuato ex ante oppure continuerai ad affidarti alla vena dei singoli.
Se a questo aggiungi il fatto di giocare la prima partita in casa, la bilancia avrebbe dovuto pesare tantissimo per la Virtus ed essere molto più leggera dall’altra parte.
Ma gli occhi vitrei di Messina e Datome hanno reso chiaro il fatto che Milano abbia una certa difficoltà a gestire il clima psicologico.
Lo si capisce davanti alle reazioni sui primi errori della squadra.
Non è così che si affronta sul piano mentale una partita.
La parola d’ordine dovrebbe essere: tolleranza; la seconda: positività.
Secondo aspetto (collegato al primo): sicurezza.
Milano (opportunamente) sceglie di cambiare le carte e giocare con un centro puro per alzare l’energia e l’intimidazione di Bologna.
Scelta che produce più solidità, rimbalzi, secondi tiri.
Ma dopo pochi minuti il centro non si vede più in campo.
Chi siamo? Quelli più atletici e dinamici di sempre o quelli più muscolari di stasera?
L’identità della squadra va in vacanza.
Terzo aspetto
Quegli altri difendono ogni palla come se non ci fosse un domani. Risultato: una corazzata come Armani lasciata a 58.
Saranno pure stanchi, ma mi sembra che ci sia anche qualcos’altro.
Quarto aspetto
Qualcuno saprebbe spiegarmi che giocatore è Micov? No, perché io non riesco a definirlo.
Non di poco conto è il fatto che, tranne rarissimi istanti, in tutte e tre le partite, i bolognesi sono per larghi tratti (circa 38 minuti su 40), davanti nel punteggio.
Non voglio parlare di supremazia, ma siamo vicini.
Milano 0 – Bologna 3
Gara 4
La riconoscenza
Il primo pensiero va alla dirigenza di Bologna.
Come si sentiranno dopo aver esonerato e poi aver dovuto ingoiare il richiamo dell’allenatore che poi li ha portati allo scudetto? Un minimo di vergogna sarebbe il minimo, oltre alle scuse.
Il secondo va a un ragazzo di 21 anni che accanto a giganti che hanno vinto titoli europei e mondiali non solo non sfigura ma è quello che dà la carica, difende per tre, non perde una palla e fa canestri decisivi.
Il terzo è per un veterano che in NBA ha fatto i numeri, torna in Italia, accetta la sfida di una società che non vinceva lo scudetto da 16 anni, e nonostante cerchino di asfissiarlo, continua a segnare in ogni modo: da fuori, da sotto, su due piedi e pure palleggiando su un piede solo.
No, sul direttore d’orchestra non dico nulla. Tranne il fatto che continuare a incantare e fare assist come manna dal cielo e punti decisivi non è affatto scontato.
Infine la difesa. Qui basta vedere i parziali dei quarti per capire anche la gara 4 che tipo di trend abbia avuto: 19-24, 22-19, 14-8, 18-11, e capire che Virtus ha progressivamente spento gli avversari come una candela.
E allora se sei un giovane allenatore, chiudi i libri, smetti di andare ai corsi, tagliati la partita e guarda una decina di volte al giorno soltanto le azioni difensive della Virtus. Ne uscirai un allenatore migliore.
Un team di persone o, se vogliamo essere più precisi, di allenatori con dei ruoli stabiliti, che seguono delle regole, che hanno lo stesso obiettivo ultimo ma con competenze e conoscenze diverse.
Devono saper lavorare insieme, condividere e, come del resto i giocatori della propria squadra, anteporre le esigenze del gruppo a quelle personali.
analizzano le dinamiche di gruppo, aiutano i componenti ad esprimersi al meglio collaborando e condividendo
Possono crearsi dei piccoli sottogruppi con i propri coordinatori.
Se pensiamo alle organizzazioni più complesse, quelle delle NBA, lo staff tecnico è composto da decine di persone, ma in cima alla piramide c’è un solo capo ben definito: L’HEAD COACH, il capo allenatore.
Prima di quest’ultimo, che per me è un leader oltre che il capo di uno staff, partirei dagli altri componenti per condividervi le mie personali idee riguardo i ruoli e le competenze.
Ha la responsabilità, in pre-season, di far raggiungere la condizione fisica necessaria ad affrontare l’inizio del campionato, durante la stagione di conservarla per poi arrivare nella migliore situazione possibile alla fine del campionato.
É un lavoro complesso, che vive di diversi momenti lungo la stagione, alcuni richiederanno specifici lavori con carichi ed obiettivi mirati, altri saranno dedicati al recupero di eventuali infortunati e a ltri, ancora, saranno momenti di supporto e di sostegno emotivo.
Non è raro, infatti, che il preparatore sia colui al quale vengono richiesti consigli anche al di fuori del basket giocato, pensando anche che il corpo, il target del proprio lavoro, è una componente che va sempre allenata, anche lontano dal campo.
Nel basket attuale il preparatore lavora sempre più in sinergia ed in simbiosi con la parte tecnica.
Ogni programmazione, sia essa stagionale, mensile, settimanale o quotidiana, deve essere il risultato dell’interazione tra le due parti.
L’assistente allenatore
E’ una figura che, anche se alcune volte lavora lontano dai riflettori, nel basket moderno ha visto ampliare sempre di più le proprie mansioni, non soltanto sul campo di basket, ma anche dietro la scrivania.
In uno staff ve ne sono diversi, e spesso con ruoli specifici.
Infatti ci sono quelli con capacità di analizzare e produrre stats e video certificando così l’importanza delle voci statistiche.
In pratica:
peso ai numeri, non solo nella lettura delle partite e dei risultati, ma anche nella costruzione delle squadre e nella preparazione delle partite da affrontare.
Il basket è uno sport aperto alle contaminazioni e alle evoluzioni:
ha assimilato dal baseball l’importanza dei numeri
dal football, sport estremamente tattico e con alcuni aspetti tecnici in comune con la pallacanestro, si è adottata, invece, la specializzazione tra gli assistenti allenatori all’interno dello staff.
E’ sempre più comune, anche in società meno strutturate di quelle della NBA, trovare allenatori responsabili delle scelte difensive o di quelle offensive, nonché coordinatori del lavoro individuale (player development coach).
Questi assistenti hanno un contatto molto diretto con i giocatori, è necessario che si manifestino nei confronti di essi come dei capo allenatori a tutti gli effetti e devono essere riconosciuti dai giocatori come tali.
Obiettivi comuni
In soldoni non deve mai instaurarsi nella mente degli atleti la convinzione di avere di fronte un allenatore meno “valido” o meno importante del head coach.
Senza invadere le competenze né prevaricare i ruoli, ritengo che uno staff tecnico sia molto più forte e credibile quando si mostra alla squadra senza differenze di valori, quando parla un assistente è come se parlasse il capo allenatore!
L’assistente non deve, però, “solo” proporre soluzioni tecnico-tattiche ai problemi che si manifestano, ma, a mio parere, in alcuni determinati momenti,
Deve, quindi, alimentare e stimolare un confronto sulle idee dal quale deve uscire una sintesi che poi renda più forte le convinzioni e le scelte adottate.
È fondamentale non sbagliare i momenti.
Il capo allenatore è colui che decide, che si assume le responsabilità e le proposte o le considerazioni devono essere fatte prima della sua scelta, dopo di essa tutti devono lavorare nella stessa direzione affinché la resa sia la massima possibile.
Alla squadra va trasferita un’idea unica, consolidata e motivata!
Un aspetto del lavoro degli assistenti, in particolare di quelli più vicini al capo allenatore, che è meno tangibile e a volte sottovalutato, è il saper fare da connettori tra la squadra e il coach.
É un compito molto delicato, invece, che in alcune circostanze si manifesta attraverso il rafforzare i messaggi, sia tecnici che motivazionali, dell’allenatore nei confronti degli atleti, in altre raccogliendo i vari feedback proveniente dalla squadra.
Ed è qui che vorrei sottolineare come l’assistente debba anche avere la sensibilità per analizzare ciò che gli viene detto e filtrare i messaggi per l’head coach…
Deve capire ciò che è funzionale al raggiungimento dell’obiettivo comune, deve prevenire possibili problemi, risolverne altri.
L’Head Coach
E’ indubbiamente il capo dello staff.
Viene chiesto di:
prendere le decisioni e la responsabilità della gestione della squadra
coordinare il lavoro dei vari allenatori
come abbiamo visto non solo tecnico
deve dare una linea e stabilire un metodo di lavoro a cui tutti devono adeguarsi.
Ritengo, però, che debba essere anche il LEADER della squadra, colui che non solo stabilisca le regole, ma che sia il punto di riferimento, non sia al di fuori del gruppo, ma parte integrante ed esempio per lo stesso!
Non deve necessariamente avere più conoscenze degli altri membri dello staff (pensiamo ad esempio, ma non solo, nei confronti del preparatore o del mental coach), ma deve avere una visione che sia Il 100% di ciò di cui ha bisogno la squadra.
Non può permettersi di non essere focalizzato sull’obiettivo comune, anzi deve avere la capacità di riportare eventualmente tutti sulla stessa “pagina del libro”.
Una dote importante è, per me, la sensibilità nel capire come e in che modo far rendere al meglio le risorse che ha a disposizione; le risorse non sono, ovviamente, solo i giocatori, ma anche i propri assistenti.
Come abbiamo detto in precedenza, essi hanno competenze e capacità diverse, fondamentale è metterli nelle migliori condizioni possibili per aumentarne l’efficienza.
Conclusioni
In ottica dell’obiettivo comune:
l’head coach potrebbe, per esempio, lasciare al proprio assistente la conduzione dell’allenamento settimanale o solo di alcune parti di esso.
La domanda
Potrebbe essere visto come un passo in dietro da parte del capo allenatore?
Da leader deve sapere che uno staff coinvolto e contento del proprio ruolo è in grado di dare quel qualcosa in più che, in un lavoro dove ogni settimana c’è un confronto tra uomini prima che atleti e tecnici, può fare veramente la differenza.
La cosa curiosa dei tabelloni segnapunti (e segnatempo) è che se potessero registrare gli sguardi, diventerebbero incandescenti a mano a mano che la partita volge verso la fine.
Se fossi un esperto in matematica direi che il tabellone lo si guarda in maniera inversamente proporzionale allo scorrere del tempo.
il primo per l’evento agonistico in sé che si svolge sul campo,
il secondo per il tabellone,
il terzo per il tavolo dei giudici (a cui ci si interfaccia per le operazioni amministrative della partita).
Ebbene sì, anche una partita ha le sue pratiche burocratiche da espletare.
Il tabellone
Eppure quel tabellone che fa sospirare e penare, dannare e gioire, quei piccoli cristalli rossi che si illuminano formando sostanzialmente numeri, tutta quella roba lì è un grande ingannatore.
Non perché sia bugiardo in sé (non c’è cosa più veritiera dei numeri, com’è noto), ma perché quel tabellone,
Il risultato finale
Sto parlando del risultato finale.
Quale unico ed assoluto giudice di ogni valutazione ex post di una prestazione?
E sto anche cercando (e sarà impresa non poco faticosa) di dimostrare che quel tabellone deve iniziare ad avere un’importanza relativa e non già assoluta nelle valutazioni di uno staff tecnico e di una società circa la performance della squadra.
Va bene, lo ammetto che la questione è spinosa assai e che investe direttamente la vecchia dicotomia tra fare sport per il gusto di farlo e farlo esclusivamente per vincere.
E’ esattamente il metro con cui si valuta lo sport semiprofessionistico e professionistico.
È questione spinosa anche perché deve ribaltare uno degli assiomi più antichi dello sport e cioè che quest’ultimo è vero solo in funzione dei risultati e che nulla conta al di fuori di quelli, che chiunque viene valutato per quanto ha vinto, eccetera eccetera.
Che se mi permettete, questa è solo una delle variabili in gioco (importante certo, ma ce ne sono anche delle altre).
Quante volte:
ci siamo sentiti dire che la nostra squadra meritava di vincere?
il pubblico ci ha applauditi anche dopo una sconfitta?
gli allenatori avversari si sono sinceramente complimentati per la prestazione fatta anche quando siamo usciti dal campo con le pive nel sacco?
La formalità
Orbene, il mio tentativo da queste colonne sarà tutto teso a dimostrare che tutta quella roba lì, che è accaduta a tutti, certamente anche più di qualche volta, è tutt’altro che formale e che la vittoria non è assolutamente l’unico parametro di valutazione per arrivare a definire se la nostra programmazione, la nostra conduzione di una gara e – purtroppo – non l’epilogo della stessa non sono da buttar via soltanto perché alla fine il punteggio ci vede sconfitti.
Ovvio considerare che se abbiamo perso ci manca ancora qualcosa, ma facciamo veramente attenzione ogni volta ad entrare nel merito della prestazione per sottoporla ad una attenta scannerizzazione che riguarda i quaranta minuti di gioco e non, magari, l’ultimo sfortunato episodio.
Proviamo anche a mettere in atto un’altra strategia.
Quel tabellone fatto di led luminosi rossi che cambiano vertiginosamente con il variare del punteggio, dei tempi di gioco e dei falli, proviamo a guardarlo un po’ meno spesso.
Quel tabellone ci condiziona tremendamente, inconsciamente, subliminalmente.
Faccio un esempio.
A inizio terzo quarto siamo avanti di venticinque:
Ritengo che il tabellone sia paradossalmente un nemico più della squadra che è avanti nel punteggio di quella che è in svantaggio.
Quei numeri dicono cose che possono entrare prepotentemente in quella delicata cosa che sono le motivazioni agonistiche che molto spesso spostano gli equilibri con la stessa facilità con cu si ribalta la famosa “inerzia”.
Ovvero quella miscela chimica e psicologica che nessuno ha mai capito fino in fondo ma che tutti gli allenatori conoscono e la “sentono” nell’aria prima che la situazione venga poi di fatto ribaltata sul campo anche se fino a pochi minuti prima il risultato sembrava aver preso una direzione precisa.
Conclusione
E allora, per concludere, qui nessuno vuole scomodare De Coubertin e assecondare quel suo cavalleresco e assai poco attuale aforisma,
in un’epoca nella quale, non solo nello sport, tutti vogliono spudoratamente vincere, sempre e comunque, con ogni mezzo, perfino quelli illeciti.
Tutto si giustifica nella moderna società della competizione sull’altare del “vincere e vinceremo”. (Duce, ci scusi la citazione).
Eppure sento che la vera e profonda ragione per giudicare cosa siamo veramente, cosa abbiamo realizzato veramente in quella partita, cosa serve veramente per trasformare quel granello di sabbia che è mancato nella valanga che occorre per superare la corrente:
Due considerazioni finali
La prima è che nessuno gioca mai a perdere e tutto questo non riguarda affatto l’aspetto delle giustificazioni o degli alibi per una sconfitta
quella sì, che sarebbe una cosa esecrabile.
La seconda è una parziale correzione della storia, ovvero del detto di De Coubertin e del senso che voleva dire.
Quel detto non è affatto farina del suo sacco: lo pronunciò per primo nella storia un filosofo greco che non avrebbe mai detto una cosa così scontata, perché quel filosofo disse in realtà:
“L’importante non è vincere, ma partecipare con spirito vincente”.
Parlando della pallacanestro di area FIBA si possano individuare alcuni turning points, ovvero alcuni cambiamenti regolamentari che hanno notevolmente cambiato il GIOCO.
La conseguenza è che ne sono state modificati gli approcci tecnici e tattici delle varie squadre e giocatori, nonché le strategie nella costruzione delle squadre.
Vediamo…
…quali sono, a mio avviso, quelli più determinanti.
Le modifiche nel tempo
1984 introduzione del tiro da 3 punti;
2004 il passaggio per i campionati FIBA dalla regola dei 30 secondi a quella dei 24 secondi.
Infatti, mentre in NBA, dopo un primo periodo in cui non vi erano limiti di tempo per concludere un’azione di attacco, nella stagione 1954/55 si decise immediatamente per i 24 secondi.
Nei paesi Europei, ma più in generale in quelli di area FIBA, ci fu prima il limite dei 30 secondi per poi adeguarsi alla regola NBA;
2010 arretramento linea dei tre punti alla distanza di 6,75 mt e modifica delle dimensioni dell’area dei 3 secondi;
2014 reset del cronometro a 14 secondi dopo un rimbalzo offensivo;
2018 l’introduzione del concetto “passo zero”
ovvero la possibilità di compiere, in determinate circostanze, un passo senza mettere la palla a terra che non rientri nel conto per il fischio della violazione di passi.
Tralasciando per ora, ne parleremo magari nei prossimi articoli, i significativi effetti degli altri cambiamenti regolamentari (alla lista precedente aggiungerei anche l’introduzione dello “SMILE”).
Le conseguenze del cambiamento del limite di tempo
In queste righe vorrei sottolineare come il cambiamento del limite di tempo per l’azione offensiva abbia influenzato a tal punto la pallacanestro “moderna” da pensare ad un vero e proprio spartiacque!
Le conseguenze sono state diverse e di grande impatto.
Parto proprio da quest’ultimo aspetto per condividere con voi alcune mie riflessioni.
La mia passione per questo sport è nata ben prima del 2004, quando le squadre erano composte da un quintetto base ben definito ed una panchina in cui era facile identificare il sesto uomo.
Quest’ultimo poteva tranquillamente far parte dello starting five, ma uscendo dal “pino” aveva un impatto sulla partita ancora maggiore tale da cambiarla.
Il resto dei panchinari (il roster era di 10 giocatori) era soprattuto giocatori di ruolo (Role Player) con compiti ben specifici, spesso con mansioni chiaramente difensive, con l’obiettivo di far rifiatare il titolare e di supporto anche morale per i primi cinque.
In seguito l’evoluzione della pallacanestro ha influenzato la costruzione del roster.
Con la riduzione di ben 6 secondi per concludere un attacco, si è visto notevolmente velocizzare il gioco con una diminuzione dei tempi di esecuzione sia fisici che mentali, tale da richiedere sforzi più intensi con conseguenti riposi brevi ma più frequenti.
Ecco la necessità di avere 12 giocatori, ma soprattutto aumentare le cosiddette rotazioni e avere un maggior apporto dai giocatori definiti rincalzi.
Nasce anche una vera e propria nuova definizione, quella di “SECOND UNIT”, cioè quintetti che iniziano la partita subentrando, ma che hanno la possibilità di giocare diversi minuti e quindi essere determinanti.
Ovviamente parte tutto da un concetto di tempo ridotto, ma non è solo una questione fisica:
non invadendo competenze altrui, non credo di essere smentito dicendo che i lavori di endurance in pres-season sono stati sempre di più sostituiti da lavori più intensi e anaerobici e da una maggiore attenzione allo sviluppo della resistenza veloce.
Infatti essendo uno sport di situazioni, l’aspetto tecnico ha risentito in maniera importante di questo cambiamento.
Analizziamo più nel dettaglio alcuni effetti
COSTRUZIONE GIOCATORI
In giro per i campi europei, a tutti i livelli, si vedono sempre più dei veri atleti.
Giocatori che potrebbero competere in qualsiasi disciplina di atletica leggera per le loro capacità anche purtroppo a scapito di una tecnica e una conoscenza dei fondamentali non precisa.
Questo è il vero obiettivo dei nostri settori giovanili, ovvero formare giocatori che sappiano abbinare a doti fisiche e atletiche di primo livello una tecnica altrettanto eccellente.
Come?
Prima insegnando in maniera precisa il gesto, aumentando solo in seguito la velocità di esecuzione e di pensiero!
E’ fondamentale avere una tecnica che ci permetta di avere un rilascio della palla efficace ed efficiente, con la palla che esce dalle mani con la giusta rotazione e parabola, con la corretta coordinazione piedi, gambe, braccia e mani.
Ciò è possibile con ripetizioni e una metodologia di allenamento che gli allenatori ben conoscono.
E’ necessario, però, che, una volta acquisita la tecnica, essa venga eseguita in tempi rapidissimi.
Quanto tempo ha il giocatore per eseguire un tiro prima di essere ostacolato?
E quanto per mettere i piedi “a posto”?
Quanti tiri sono effettivamente liberi o senza la pressione del difensore?
Quanto tempo ha per decidere il tipo di tiro da effettuare in relazione alla situazione di gioco?
Pochissimo, sicuramente molto meno di quanto ne aveva con i 30 secondi a disposizione per concludere l’azione d’attacco.
Sicuramente ha meno libertà di movimento dovendo affrontare difese più atletiche che riempiono gli spazi molto più velocemente. (Basti pensare ai “CLOSE OUT”).
GIOCHI OFFENSIVI
Prima della variazione regolamentare era norma sviluppare giochi d’attacco nei cui primi secondi c’era soprattutto un movimento di palla non sempre accompagnato da quello dei giocatori, o comunque non tale da creare un vantaggio immediato da poter sfruttare andando a canestro o concludendo.
Il vero pericolo per le difese infatti arrivava negli ultimi secondi dell’azione
Con i 24 secondi c’è stato uno sviluppo di set offensivi che dai primissimi istanti dell’azione permettono di mettere sotto pressione la difesa (concretizzare i vantaggi).
Alcuni consentono di raggiungere una conclusione dopo un solo passaggio e un movimento di un solo giocatore (si vedono sempre più isolamenti), altri hanno obiettivi chiari ed immediati che coinvolgono non tutti gli attaccanti (pensiamo a come nascono diversi pick&roll centrali).
Così come, (per necessità o per “pigrizia” di noi allenatori?), non è inusuale avere diverse chiamate dello stesso gioco a secondo del giocatore che vogliamo coinvolgere limitando, così, al minimo il tempo di esecuzione, ma anche la capacità di scelta dei nostri atleti.
Scelte che potrebbero rallentare l’esecuzione del gioco, con la conseguenza in questo caso, personale considerazione, di un impoverimento della qualità dell’attacco e del giocatore stesso.
Con un attacco pericoloso già nei primi secondi, con una ricerca sempre maggiore di attaccare in contropiede, attraverso anche transizioni offensive sempre più efficaci, è fondamentale avere giocatori in grado di passare da una fase all’altra immediatamente.
Da qui l’attenzione per le transizioni difensive e per costruire una mentalità difensiva che non sia passiva, ma anzi permetta di aggredire l’attacco nei primissimi metri del campo (con difese tutto campo, raddoppi, blitz sulla palla…)
In particolare le qualità atletiche di ormai tutti i giocatori, indipendentemente dai ruoli, e i meno secondi a disposizione dell’attacco, permettono di utilizzare cambi difensivi anche tra diversi ruoli.
Molto efficaci per spezzare il flusso in attacco e costringerlo a soluzioni rapide e meno efficaci, condizionato anche dalla SHOT CLOCK VIOLATION.
Le cosiddette SPECIAL PLAYS
Per le scelte difensive dette in precedenze, ma anche per gli ulteriori cambiamenti regolamentari (pensiamo il reset ai 14 secondi), non possono mancare nel playbook delle varie squadre quelle situazioni a gioco rotto o quelle rimesse, sia laterali che da fondo, per la ricerca di una conclusione veloce.
Ciò ha permesso una notevole specializzazione per queste chiamate “speciali”.
Conslusione
Il basket per sua natura e per come è stato ideato, è sempre incline ai cambiamenti, avvicinandosi a quelle che sono le richieste di modernità.
Si può tranquillamente affermare che sia uno sport “progressista”.
Così come lo devono essere tutti i suoi attori protagonisti, pronti ad adeguare la propria metodologia di lavoro, come abbiamo visto, sia dal punto di vista atletico che tecnico (non tralasciando il lavoro degli arbitri, a cui è richiesto di adattarsi ad un gioco più veloce e con più contatti).
In particolare con l’introduzione dei 24 secondi, il gioco ne ha sicuramente guadagnato in spettacolarità.
Sicuramente risulta essere più moderno e fruibile per un pubblico sempre più alla ricerca della giocata spettacolare e poco amante dei tempi morti.
L’argomento che il nostro coach, Sergio Luise, tratterà fa parte di un aspetto del lavoro di allenatore professionista che meriterebbe diversi approfondimenti, ognuno dei quali potrebbe essere il principale tema di successivi articoli.
“Si potrebbe, infatti, riflettere sull’effettiva funzionalità di trasmettere ai giocatori i report tecnici della squadra avversaria, cosa trasmettere, quando trasmettere e ovviamente come trasmetterli”.
La mia opinione
A volte si attribuisce troppa importanza, da parte di noi allenatori, alla condivisione con i giocatori di ciò che fanno gli altri.
Già nell’organizzazione della settimana durante la pre-season diverso spazio viene riservato a quelle che noi chiamiamo riunioni tecniche, ovvero, lo sharing di clips, prontamente realizzate dallo staff, alla squadra.
Sono proprio quest’ultime che permettono ai propri giocatori di conoscere il più possibile degli avversari, sia dal punto di vista tecnico che tattico.
Ogni stagione, nel programmare il lavoro settimanale, mi faccio alcune domande:
cosa facciamo vedere alla nostra squadra degli avversari?
In che momento della settimana?
Quanto tempo dedicare a cosa fanno gli altri?
Cosa voglio che memorizzino da utilizzare durante una partita?
Non si hanno risposte univoche
Dipende dal tipo di roster che si ha a disposizione;
Dal livello di conoscenza della pallacanestro dei propri giocatori
(magari una squadra esperta riconosce più facilmente le situazioni di gioco);
dal vissuto insieme della propria squadra
(una squadra nuova ha probabilmente più bisogno di lavorare sulle proprie situazioni).
Ci sarebbe, appunto, da scrivere diversi articoli per esprimere meglio i vari punti di vista!
Idea su come agevolare la memorizzazione delle situazioni di gioco d’attacco della squadra avversaria.
Il grosso del lavoro è ovviamente svolto dallo staff nei giorni precedenti, spesso anche nella settimana precedente, rispetto al momento in cui si decide di esporlo alla squadra.
Dopo aver analizzato diverse partite, si esegue lo scout dei giochi degli avversari, si opera dello screening e si decide cosa proporre.
Normalmente è la seconda parte della settimana il momento in cui vengono trasferite le informazioni, anche se personalmente, preferisco, dalle primissime ore di allenamento, estrapolare un paio di situazioni di attacco degli avversari e lavorarci su
(in questa fase parliamo di lavori a secco, arrivando al massimo al 2 vs 2, senza specificare le chiamate o l’intera esecuzione del gioco!).
In pratica si lavora su PRINCIPI.
Entriamo, ora, nel vivo del trasferimento delle informazioni ai giocatori
Ogni allenatore, ogni staff tecnico, ha un suo modus operandi, per me, come dicevo prima, molto dipende anche dal tipo di squadra che si sta allenando.
Primo momento
Preferisco, a metà settimana, lavorare in maniera analitica (non oltre il 4 vs 4) “spezzettando” i giochi avversari e focalizzando l’attenzione dei miei giocatori solo sul movimento:
Tutti i giocatori proveranno attacco e difesa, mostrando le varie opzioni del set offensivo.
Rinforzeremo le nostre scelte anche facendo riferimento alle caratteristiche individuali degli avversari, dando gli accoppiamenti.
In questo caso si chiederà al giocatore di memorizzare anche la chiamata.
Di quanti giochi?
Avendo lavorato molto per obiettivi durante la settimana non voglio siano troppe le chiamate da ricordare,
preferisco un maggior sforzo circa il riconoscere la situazione di attacco e quindi operare la scelta difensiva allenata!
In ogni caso, dalla prima riunione incentrata sui giochi avversari, si fornisce anche del materiale in cui vengono disegnati i movimenti avversari, oltre a ritrovarli nello spogliatoio affissi nelle varie bacheche.
Conclusione
All’inizio della mia carriera l’unico metodo era distribuire del materiale cartaceo, dove oltre i disegni vi erano anche spiegazioni circa le varie scelte.
Ora si utilizzano applicazioni, software, che permettono lo sharing dei montaggi video (lavoriamo sempre di più con giovani abituati più a vedere che a leggere.. è fondamentale adeguarsi!).
Questa è solo una proposta di lavoro.
Proposta da modellare sulle qualità degli avversari e soprattutto sulle capacità della propria squadra, ma mi piacerebbe, invero,
In questi giorni ci stiamo beando delle immagini che provengono da oltre oceano, fortunatamente la NBA e la WNBA sono riprese e ci stanno fornendo milioni di spunti oltre alla visione di partite spettacolari nonostante la mancanza degli spettatori, che in arene come quelle americane sicuramente rappresentano un valore aggiunto.
Prendo spunto…
non dalle clips spettacolari di LeBron o di Doncic e via dicendo ma da due rimesse che avevano una esecuzione simile ma che non sono andate entrambe a buon fine.
Stesse rimesse laterali, con lo stesso scopo, quello di liberare il tiratore vicino il lato della rimessa ed, in ultima ipotesi, avere la forza e la capacità di vedere l’uomo che era libero vicino la linea laterale opposta.
Nello specifico
Se ci soffermiamo su questa situazione ci possono essere tantissime cosa da sottolineare, un milioni di particolari, ma mi fermo al “semplice” gesto del passaggio da una linea laterale all’altra, tralasciando l’aspetto che chi ha tirato lo ha fatto in 5 decimi di secondo!!!
Quel passaggio racchiude: gesto tecnico, forza e lettura mentre i compagni si muovevano.
E’ ovvio che chi è un giocatore della NBA sa passare la palla nel modo giusto.
Mi aggancio ad uno dei tormentoni di coach Andrea Capobianco che giustamente afferma:
“ dire passa la palla bene ad un giocatore non significa nulla”.
Insegnare ad un giocatore come si passa la palla e soffermarsi su quale tipo di passaggio deve fare in base alla situazione di gioco ovviamente non è un male.
Nel caso della rimessa dei Raptors era un passaggio lob.
Mi chiedo tutti i nostri giocatori sanno veramente come si effettua un tale passaggio?
Per effettuare un tale passaggio ci vuole:
la tecnica
la forza, che deve essere tale da far arrivare la palla velocemente da un lato all’altro del campo in maniera precisa, con un Big man messo volutamente dalla panchina avversaria ad ostacolarne la visione ed il passaggio.
la lettura, bisogna “leggere” la situazione
nel caso che esaminiamo si deve leggere il tutto, in pochissimo tempo, per effettuare la rimessa ed effettuare un tiro a 5 decimi di secondo.
La lettura del gioco
E’ un aspetto molto complesso, che ci porta ad una discussione infinita.
Di solito in palestra lo stimolo esterno che hanno i nostri ragazzi è principalmente la nostra voce, che dopo un po’ puo’ stancare, ed allora:
perché non trovare altri stimoli da inserire durante i nostri allenamenti.
Coach Massimo Antonelli di Tam Tam Basket usa la musica per migliorare il gesto tecnico dei ragazzi, ma esistono altri strumenti per migliorare i nostri ragazzi.
In questi giorni ho visto un lavoro eccellente creato da Coach Massimo Riga che attraverso le luci, i colori, l’uso di cartelloni cerca di dare un approccio differente al lavoro in palestra.
Senza gridare:
tieni la testa alta
usa delle lampade che rispondono a certi impulsi.
Posizionati in base al lavoro che intende effettuare danno la possibilità di non dover più gridare “testa alta”, oppure “passa la palla”.
(situazione tipica: il coach dice “passa la palla”, ovviamente lo sente anche l’avversario, e la palla viene rubata).
Usando stimoli diversi, i ragazzi reagiscono a questi stimoli ed il coach lavora, insieme al ragazzo, sul gesto tecnico.
Conclusione
Guardo – sento – leggo, dove, però, la lettura è frutto di un impulso non indotto dal coach ma è una reazione che il giocatore ha, vedendo quello che succede in campo.
Tornando alla rimessa Raptors tutti i giocatori vicino alla palla sono fermati dai cambi difensivi degli avversari mentre la luce si accende lontano dalla palla,
“Chiama un time out!”, “quando lo chiami il time out?!”.
Sono tra le frasi più urlate dagli spettatori a noi allenatori durante la partita, a testimonianza dell’importanza che lo stesso pubblico attribuisce a questo aspetto del GIOCO.
Facciamo però un passo indietro.
Il significato sportivo del termine Time Out è sospensione del tempo, ed era proprio questo il motivo per cui fu inserito nelle regole del nostro sport, ovvero dare la possibilità di riposo ai giocatori.
Era quindi una pausa momentanea dal GIOCO.
L’evoluzione della pallacanestro ha reso, invece, questa interruzione del “giocato” una fase concreta della partita, tanto da essere un’arma tattica che tutti noi allenatori dobbiamo essere in grado di sfruttare a pieno.
Il primo aspetto da tener conto è il numero di time out che ogni squadra ha a disposizione.
Si hanno un massimo di 7 time out per squadra, ognuno con durata di 75 secondi.
Possibilità di chiamare massimo 2 time out negli ultimi 3 minuti, più altri 2 per ogni eventuale supplementare.
Oltre la panchina (allenatore o vice allenatore) la richiesta può avvenire anche direttamente dal giocatore che possiede la palla.
Attenzione però, secondo la regola “televison time out“, durante ogni quarto ad ogni squadra viene obbligatoriamente assegnato un time out per ragioni televisivi anche se non chiamato dalle squadre stesse!
Proprio la gestione del numero dei time out, comporta una prima decisione strategica da parte dello staff.
È fondamentale, infatti, avere sempre ben presente quanti ne restano a disposizione, ipotizzando un loro utilizzo nei momenti decisivi della partita.
Questa scelta dipende molto dal feeling che lo staff tecnico ha con la partita e con i momenti di essa, rimanere senza può costare il risultato finale.
Quando chiamarlo?
Non c’è un’unica risposta a questa domanda.
Può esserci la volontà di modificare il ritmo della squadra avversaria, interrompendo per esempio un break positivo, ma può anche essere la soluzione per cambiare tatticamente delle scelte che non pagano e che hanno bisogno di essere mostrate con “calma“.
Altro significato è il time out chiamato in prossimità degli ultimi secondi di un quarto o per gestire meglio il possesso previa una violazione di tempo, in cui sfruttando una rimessa a favore si mostrano alla squadra le cosiddette situazioni speciali (a.t.o. plays).
Non sempre però la tattica è la protagonista della sospensione, ci sono time out il cui obiettivo è essenzialmente psicologico, dare una scossa ad una squadra o a singoli giocatori in difficoltà.
E’ in questo caso che la conoscenza dei caratteri dei propri uomini è fondamentale per andare a toccare le giuste corde per avere una reazione.
C’è chi ha bisogno del bastone e chi della carota!
Nella mia esperienza da assistente ho lavorato con head coach ai quali piaceva avere un mini time out con l’intero staff prima di comunicare con la squadra, richiedendo quindi sintesi e chiarezza nell’esposizione delle idee proposte, altri invece volevano avere tutto chiaro prima di rivolgersi al tavolo per chiamare la sospensione.
Da capo allenatore io ho sempre preferito la prima soluzione, sfruttavo quel momento anche per lasciare dei secondi sola la squadra affinché parlassero tra loro.
Non raramente, se c’è un’intesa consolidata all’interno dello staff, il capo allenatore lascia condurre il time out al vice, soprattutto se l’indicazione da presentare alla squadra è un’idea dell’assistente.
Importante, comunque, che non ci sia un un’accavallarsi di voci. I giocatori in quei pochi secondi devono avere la massima concentrazione, recepire poche cose ma chiare.
Strategie
Alcune volte si sfruttano i pochi metri che separano le panchine dal campo per suggerire all’orecchio del giocatore le ultime indicazioni mentre il tavolo ha fischiato la fine della sospensione.
Altri che guardano negli occhi i propri giocatori prima di parlare.
Altri che utilizzano solo raramente la lavagnetta.
Conclusione
Ognuno ha la sua tecnica e il suo modus operandi, l’importante è organizzare e sapere cosa si vuol trasmettere in quel momento, senza lasciare nulla all’improvvisazione o chiamare il time out perché lo chiede il pubblico.
Bisogna sempre essere consapevoli di ciò che si sta facendo.
Una visione dell’allenamento a 360° con l’oggettiva bravura di far funzionare in maniera efficace ogni staff che lo coadiuva.
In uno degli 11 campionati vinti ci sono stato anche io, condividendo un anno sportivo con un allenatore del suo calibro.
E’ garantito che i suoi articoli saranno di notevole contenuto perché dettati dall’esperienza, dal buon senso, dalla generosità e dalla profonda cultura di cui Domenico è ricco.
Onorato per aver accettato di dare il tuo apporto, grazie Domenico.