“Ogni bambino possiede delle capacità (DNA, esperienze,…..) e in base alle sue capacità è in grado di sviluppare delle competenze e se tu, Istruttore, vuoi migliorare le sue competenze, devi metterlo in condizione di aumentare le sue conoscenze”.
Un bambino pensa e esegue in base alle proprie conoscenze e alle proprie capacità, altrimenti non diventerà mai compente e abile nell’eseguire un gesto o un movimento.
Ora si parla di apprendimento cognitivo, ma prima che apprendimento era?
Il cognitivismo esisteva già dal 1981 e ancora prima! Mi ricordo che dal 1981 parlavo di tassonomia, di conoscenze, di capacità e di competenze.
Insegno in Università Cattolica (Scienze della Formazione) da oltre 35 anni e ricordo agli addetti ai lavori che i progetti devono essere scientificamente codificati (con un gruppo di controllo) e non astratti!
Oggi si parla di neuroscienze, ma prima non si lavorava sulla lateralità, sulle funzioni dei due emisferi, sullo spazio, sul tempo?
Mi sembra il gioco delle “tre carte”!
Molti bambini non:
conoscono che cosa possono fare con il proprio corpo
quindi è importante aumentare la conoscenza degli schemi motori di base e posturali;
conoscono lo spazio
quindi è importante educare lo “spazio topologico”, migliorando le conoscenze spaziali;
prendono delle decisioni
quindi è importante fornire loro delle conoscenze relative al “making”;
sono in grado di modificare una iniziativa presa inizialmente
quindi dobbiamo migliorare le conoscenze alternative;
padroneggiano determinati movimenti con la palla
quindi “manualità” e aumento dei gesti di manipolazione
più conoscenze un bambino possiede più è in grado di “gestire” il movimento;
conoscono “i fondamentali individuali”
quindi sarebbe opportuno aumentare le conoscenze sui fondamentali.
E mi fermo qui! Potrei continuare…
IL MIO PENSIERO
Lavorare SOLO per competenze?
Aumentare le conoscenze per diventare più competenti?
La collaborazione è la base di qualsiasi gruppo, partendo da valori riconosciuti da tutti i componenti
Come si può definire una “vera” squadra?
La squadra è un gruppo di persone preposte allo stesso compito e coordinate per una funzione comune.
Per essere una “vera” squadra non basta…
…vivere tutti sotto lo stesso tetto, nello stesso spogliatoio o in campo durante una partita, tutti i componenti della squadra, sia essa la famiglia o un “team” devono essere allineati, in equilibrio, uniti e con la mente rivolta a costruire un “vero” Team Building.
Quando si può definire una famiglia come una “vera” squadra?
Il successo di una “vera” squadra-famiglia è dettato dalla sinergia e dal funzionamento di tutti i componenti: non può gravare tutto su una persona, ci sarebbe uno squilibrio, a lungo andare si perderebbe di efficacia e si creerebbero dei malcontenti.
Divisione dei compiti
Dividersi i compiti in una squadra e in famiglia significa:
riuscire a fare più cose assieme con dei compiti ben delineati;
stancarsi di meno;
essere più sereni;
riuscire a godersi anche del tempo per fare altre cose insieme.
Il fare una cosa, l’ubbidire, il rispettare le regole in casa può diventare più leggero se si cambia il punto di vista.
Nel momento in cui dobbiamo fare qualcosa che non possiamo delegare a nessun altro, possiamo cercare delle modalità più leggere o comunque evitare di partire già “con il piede sbagliato” ed essere insofferenti quando si esegue un dovere.
Il dover ritornare in difesa per un attaccante in una squadra, può essere meno faticoso se contribuisce alle idee dell’allenatore che predilige il gioco a tutto campo.
In una famiglia e in una squadra non ci può essere competizione interna o lo scarica barile:
“Io faccio”, “Tu non fai”, “ Se io faccio …. tu devi fare…”
Assolutamente in famiglia e in squadra non ci devono essere rancori e insofferenze nei confronti dei componenti o voglia di rivincita sugli altri.
Fare squadra! Una squadra serve per mettere dei buoni pilastri educativi.
La complicità e la collaborazione
In una famiglia è molto importante la complicità, soprattutto tra i due “capisquadra” il padre e la madre.
Per i figli non c’è niente di più bello che vedere il papà e la mamma che sono:
complici
alleati
collaborativi
e non due realtà individuali che vivono due vite parallele o secondo gli stereotipi classici del maschio che ha delle mansioni e la femmina delle altre.
In una “vera” squadra di calcio, di basket o di volley ci deve essere complicità e collaborazione tra il capitano e gli altri compagni e questa complicità (che non deve essere a danno dell’allenatore) i giocatori la devono creare durante l’allenamento, nello spogliatoio e nel tempo libero.
La casa, lo spogliatoio
È molto importante che i figli siano educati fin dalla prima infanzia alla collaborazione e non al fatto che devono essere serviti e riveriti.
Non si può preferire un figlio o una figlia rispetto all’altra o all’altro, i figli sono “tutti uguali” e se si pretende che i propri figli comprendano il rispetto, il valore di ciò che si fa per loro e i ruoli, deve passare il messaggio che i genitori sono disponibili, non a disposizione.
lo spogliatoio è sacro, nulla deve uscire dalla spogliatoio, nulla deve uscire dalla casa.
Se i figli non lo capiscono da piccoli, non lo capiranno neanche durante il periodo adolescenziale e cercare di inquadrarli quando sono grandi, diventa un’impresa veramente faticosa che rischia di trasformarsi in una lotta quasi quotidiana.
In uno spogliatoio ci si può dire di tutto ma non deve trapelare all’esterno.
Conclusioni Per evitare di finire a fare un continuo braccio di ferro ed essere sempre in rincorsa, è importante mettere delle buone basi sia in famiglia che in una squadra.
La famiglia e la squadra devono avere dei valori riconosciuti da tutti i componenti e permettono di differenziare ciò che è giusto da ciò che non lo è.
E’ opportuno a questo punto creare un “Team building” oliato alla perfezione e che produca risultati:
Nell’articolo precedente ho trattato quella parte del lavoro di noi allenatori che riguarda la diffusione e la condivisione dei giochi avversari, le varie modalità in cui avvengono, gli obiettivi che ci prefiggiamo di ottenere e la collocazione temporale all’interno di una settimana lavorativa.
In questo nuovo contributo vorrei porre l’attenzione, invece, sull’importanza che assumono le caratteristiche individuali dei giocatori avversari.
Individual skills / Stats
Buona parte, infatti, delle informazioni degli avversari che lo staff tecnico trasmette alla propria squadra, riguardano le cosiddette individual skills accompagnate dalle “stats”.
Le prime rappresentano non solo ciò che il giocatore “sa fare”:
quindi i suoi pregi e i suoi difetti dal punto di vista tecnico;
il suo ruolo tattico
“ma anche”:
ciò che egli rappresenta per la propria squadra;
se è un punto di riferimento in attacco o in difesa;
Ovviamente la visione delle partite è altrettanto importante come quando bisogna redigere il playbook della squadra avversaria ed è facilmente intuibile che, in questo caso, il numero delle partite visionate è di fondamentale importanza.
Poche potrebbero dare false indicazioni (fake news), mentre un numero adeguato ci permette di avere maggiore certezza nello scegliere cosa condividere con i propri atleti dei futuri avversari.
Spesso gioca un aspetto fondamentale la conoscenza diretta del giocatore e, se non è possibile riscontrarla all’interno dello staff, ecco che ritornano d’aiuto le telefonate fatte, magari, in passato con altri colleghi che ci permettono di aggiungere anche delle note caratteriali al profilo dell’avversario.
Le seconde, ovvero le statistiche, nel basket moderno acquistano anno dopo anno, stagione dopo stagione, sempre più rilevanza.
Esse sono, non solo di supporto al giudizio circa l’efficacia, ma, grazie ai dati numerosi ed approfonditi che siamo mi grado di ricavare dai vari siti specializzati, anche indicative circa le abitudini dei singoli giocatori.
Esempio
oggi di un avversario possiamo sapere, con un’elevata accuratezza:
quante volte attacca il ferro con la mano destra;
quante con la sinistra;
in che percentuale utilizza quel tipo di conclusione
se è in uscita dal lato destro piuttosto che sinistro
cosa fa dopo un blocco
cosa preferisce fare negli ultimi secondi dell’azione e così via!
Tutto merito della famosa arte di scoutizzare una partita.
Vi sono colleghi all’interno degli staff tecnici che si sono specializzati in questo compito.
Il report
Ritorniamo ora al materiale che si sceglie di condividere con la propria squadra.
Come per i giochi avversari, non c’è una regola valida per tutti e per tutte le situazioni.
Nell’organizzare le informazioni da trasmettere alla squadra parto da una quasi certezza:
la prima voce del report che i giocatori vanno a guardare sono le stats degli avversari, in particolare dei giocatori che immaginano di dover marcare!
Ed è questo il motivo per cui è fondamentale la scelta e la modalità dei “numeri” che si propongono.
Essi devono essere di supporto e non dare cattive indicazioni, meglio non fornirli se non siamo sicuri di ciò che evidenziamo!
Dobbiamo avere chiaro in mente il messaggio che vogliamo condividere e l’obiettivo che vogliamo raggiungere.
Inutile sottolineare le buone percentuali di un giocatore da tre punti
se i suoi tentativi non sono significativi
Al contrario, è un errore non mettere in guardia sulla pericolosità di un tiratore che in carriera ha avuto sempre alte percentuali
magari meno fino a quel punto della stagione e quindi riportare anche i dati delle altre annate oltre a quella attuale.
Il sapere quali sono le soluzioni più efficaci a seguito di un preciso movimento o di uno schema, hanno più valenza di una “fredda” media aritmetica.
Il tutto deve essere coerente con le indicazioni che diamo per presentare le caratteristiche di un giocatore avversario e con le immagini che nelle varie riunioni presentiamo alla squadra.
non credo sia un messaggio chiaro riportare clip in cui un giocatore mostra una skill che statisticamente non è un dato significativo.
Organizzazione del report
Le indicazioni scritte preferisco siano dei flash, molto sintetiche, in stile linguaggio sms, devono catturare l’attenzione di una generazione abituata a vedere video più che leggere.
Le clips devono essere mirate, di ogni singolo giocatore.
Devono:
mostrare le caratteristiche principali, legate alle statistiche;
più brevi possibile
giusto il tempo d’ individuare il giocatore e di capire in che contesto tecnico e tattico si sviluppano;
mostrare anche i punti deboli
che messaggio diamo alla squadra se mostriamo solo canestri di un avversario?!.
Influenza della categoria del campionato
In un campionato di medio livello troveremo giocatori con qualità e difetti ben riconoscibili su cui speculare e dove la conoscenza specifica di ogni avversario può veramente fare la differenza e indirizzare il risultato di una partita.
Diverso il discorso quando il livello sale.
In questo caso dovremo confrontarci con giocatori dal talento elevato con un bagaglio tecnico importante e completo, magari roster molto lunghi e con infinite possibilità.
Nel primo caso credo che il tempo da dedicare al trasferimento delle informazioni individuali debba coprire una fetta importante del lavoro di uno staff.
Credo sia importante coinvolgere i singoli giocatori informandoli il prima possibile dei propri diretti avversari, farlo nei primissimi giorni della settimana dedicati alla squadra avversaria, anche prima dei riferimenti agli schemi.
Nel secondo caso, invece, si parla di limitare la pericolosità di un avversario, magari necessita di un lavoro di squadra piuttosto che singolo, non si parlerà più di speculare sui difetti, ma bensì di accorgimenti tattici, di una difesa di squadra e quindi di collaborazioni.
É opportuno, quindi, informare e coinvolgere tutta la squadra, operare delle scelte di cui siano consapevoli tutti i giocatori dedicandovi del tempo sul campo importante.
Conclusione
In ogni caso, alla base di qualsiasi ragionamento e programmazione, non bisogna mai dimenticare che la pallacanestro è un Gioco di squadra, per il sottoscritto la più alta espressione.
La pratica sportiva in Italia non è molto diffusa, tuttavia, se consideriamo i praticanti di tutte le discipline, giungiamo a una cifra piuttosto considerevole.
Il numero di ragazzi in età scolare che pratica sport è così elevato da permettere l’identificazione di una vera e propria tipologia di alunno chiamata “studente-atleta” che, tuttavia, è ancora sconosciuta, se non apertamente ignorata od osteggiata da una parte d’insegnanti…
Chi sono, esattamente, gli studenti-atleti?
Si tratta di ragazzi che praticano sport in maniera agonistica sottoponendosi a numerosi ed estenuanti allenamenti settimanali (spesso anche più di dieci) e che al contempo frequentano la scuola.
Va da sé che, a differenza dei compagni, questi alunni hanno poco tempo a disposizione da dedicare allo studio e spesso sono assenti per via di gare e ritiri con le squadre nazionali.
Il documento
Nel 2012 la Commissione Europea ha stilato un documento nel quale ha riconosciuto ufficialmente che gli studenti-atleti necessitano di speciali attenzioni psico-educative e pertanto la scuola deve introdurre percorsi specifici che vadano incontro alle loro esigenze.
Prevede la stesura di un Progetto Formativo Personalizzato che permette la personalizzazione dell’apprendimento sulle esigenze del singolo alunno, diversificando metodologie, tempi e strumenti.
L’iniziativa è sicuramente lodevole ma non bisogna pensare che sia il punto d’arrivo dell’inclusione dei giovani atleti a scuola.
Il programma, purtroppo, presenta diverse criticità: tre quelle fondamentali.
In primo luogo:
è permessa la partecipazione soltanto alle istituzioni secondarie di secondo grado, dimenticandosi di tutti i ragazzi che praticano sport a specializzazione precoce come
sebbene il Ministero dell’istruzione (ex MIUR) riconosca apertamente che gli studenti-atleti siano costretti a un numero superiore di assenze a causa di raduni e gare, non viene indicata nessuna soluzione al problema, lasciando l’iniziativa a presidi e insegnanti.
Infine:
il procedimento per partecipare al programma è molto lungo e macchinoso.
Ecco i perchè
Il ragazzo, di sua iniziativa, deve richiedere alla propria federazione un attestato che assicuri il suo status di atleta di interesse nazionale;
la certificazione deve essere presentata presso la segreteria scolastica;
la scuola deve compilare ed inviare la richiesta per la partecipazione alla sperimentazione;
il Consiglio di classe deve coinvolgere il docente referente dell’area BES (Bisogni educativi speciali) ed individuare un tutor scolastico;
per conoscere il referente sportivo deve mettersi in contatto con la federazione di appartenenza;
deve provvedere alla stesura del Progetto Formativo Personalizzato e farlo pervenire alla commissione esaminatrice che dovrà approvarlo;
per usufruire della piattaforma e-learning messa a disposizione dal Ministero dell’Istruzione, il consiglio di classe deve fare un’ulteriore richiesta.
Tutto ciò deve avvenire in tempi brevissimi (entro ottobre), mentre durante l’anno i docenti coinvolti dovranno partecipare ad una formazione professionale specifica.
Da quanto detto appare evidente come il PFP debba essere visto come un punto di partenza ma sicuramente non d’arrivo.
Innanzitutto, l’attuazione del progetto dovrebbe essere snellita, la partecipazione ampliata alle scuole secondarie di primo grado e andrebbe prevista una soluzione ufficiale per il problema delle assenze.
Infine, l’aspetto più importante è che la sperimentazione non resti tale ma si tramuti in legge.
Conclusioni
Finché ciò non avverrà, continueranno ad esserci disuguaglianze e disparità di trattamento da una scuola all’altra poiché tutto è demandato alla sensibilità e al giudizio personale dei singoli insegnanti che,