Attraverso le parole di Alberto Cantone comprendiamo il gesto di un piccolo grande uomo che a suo modo ha cambiato la storia dei diritti umani. Il suo nome è Peter Norman e il suo gesto silenzioso sarà ricordato a lungo.
Quando smetteremo di parlare di sport femminile e inizieremo a riconoscere le donne al pari degli uomini anche nello sport, allora si potrà cambiare il tono della domanda.
Lo sport è per tutti ed è di tutti: maschi e femmine, ma è solo un miraggio in Italia!
Nel mondo dello sport italiano ci sono discipline considerate appannaggio esclusivo degli uomini o delle donne…
In questo Report il 38,5 % degli uomini pratica il calcio contro l’1,2 % delle donne, il 16,8 % delle donne pratica danza contro il 2 % degli uomini, il 4% degli uomini pratica il volley rispetto all’85% delle donne e così di seguito.
Foto di Tima Miroshnichenko
Un lavoro del Centro Studi di C.O.N.I. Servizi del 2017, relativo alle caratteristiche demografiche degli atleti e degli Operatori delle Federazioni Sportive Nazionali e delle Discipline Sportive Associate, evidenzia elementi di fortissima differenziazione di genere:
le atlete donne erano il 28,2 % contro il 71,8 degli atleti maschi (su 4,7 milioni di tesserati complessivi);
tra gli Operatori Sportivi (Istruttori, Allenatori, Dirigenti), 4 su 5 erano di sesso maschile (80,2 % Allenatori, Istruttori, Direttori Sportivi, 81,8 % Ufficiali di Gara e Arbitri, 87,6 % Dirigenti Federali e 84,6 % Dirigenti Societari).
Questi sono i dati ufficiali del 2017, ma nel 2020 i risultati sono diversi, è aumentata la percentuale delle atlete donne nel calcio, nello sci, nel rugby, ecc., sono aumentate le donne “coach”, le donne “Dirigenti”, insomma è cresciuto il numero delle donne al timone del comando!
Ma non esiste ancora parità!
La storia dello sport della donna, infatti, non è stata ancora scritta in Italia in maniera compiuta.
Foto di nappy
Un po’ perché la storia dello sport, in generale, si è sempre occupata di questo fenomeno dal punto di vista maschile, ma anche perché la storia dello sport femminile è stata finora circoscritta, avendo considerato le vicende di qualche atleta illustre, o di qualche disciplina, o di qualche episodio eclatante, senza una visione d’insieme.
È anche mancato il materiale su cui indagare, perché la donna, solo di recente, ha avuto una propria storia, relegata però in quella del costume.
Infine non bisogna dimenticare il contesto in cui ha vissuto per secoli la donna nel nostro Paese, soggetta a pregiudizi di tipo culturale di difficile superamento, condizionata, come negli altri Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, dalle sue prerogative di madre e sposa, prerogative che la hanno relegata ad un ruolo secondario della vita civile.
Però all’estero la situazione è migliore, sia perché sono più avanzati gli studi di storia dello sport in generale, sia perché questo fenomeno è entrato nella cultura comune e nel modo di vita quotidiano.
Ora però anche in Italia qualcosa sta cambiando, la dimostrazione è che la bi-campionessa olimpica di ciclismo Antonella Bellutti si presenterà come sfidante di Giovanni Malagò alle prossime elezioni per la presidenza del CONI
Quando smetteremo di parlare di lavoro “al femminile” e inizieremo a riconoscere le donne al pari degli uomini anche nel lavoro, allora si potrà cambiare il tono della domanda.
Il lavoro è per tutti ed è di tutti: maschi e femmine, ma è solo un miraggio in Italia!
Le donne hanno il 25% in meno di diritti sul lavoro rispetto agli uomini, così afferma il nuovo rapporto “Women, business and the law 2019”, pubblicato dalla Banca Mondiale, nel quale si prendono in considerazione le decisioni economiche e legislative che i Paesi hanno intrapreso negli ultimi 10 anni per migliorare la situazione delle donne nel contesto lavorativo.
La media mondiale è intorno ai 74 punti: in pratica le donne ricevono un quarto in meno di diritti sul lavoro rispetto agli uomini.
Nel 2018 ci sono sei Paesi che hanno raggiunto il punteggio di 100 nel rapporto della Banca Mondiale:
Belgio
Danimarca
Francia
Lettonia
Lussemburgo
Svezia
Nel 2020 il numero dei Paesi che ha raggiunto il punteggio di 100 è aumentato specialmente nel nord Europa e nel nord America.
Dando uno sguardo in generale alla situazione, si può notare un progresso dal punto di vista del “gender equality” ma esistono diversi Paesi, soprattutto in Africa e Medio Oriente, che non raggiungono nemmeno la metà del punteggio massimo.
Secondo il rapporto, le donne iniziano la propria carriera lavorativa più tardi degli uomini e a 25 anni e la scelta del lavoro per loro è condizionata da tre fattori principali:
la sicurezza economica;
la possibilità di crescita;
l’equilibrio tra il lavoro e la vita privata.
Le politiche economiche di ogni Paese sono state analizzate attraverso alcuni indicatori che prendono in considerazione ogni fase della vita lavorativa della donna:
i vincoli sulla libertà di movimento (sia la possibilità di andare concretamente al lavoro, sia la capacità di viaggiare);
la valutazione delle leggi e degli strumenti che permettono alle donne di entrare nel mondo del lavoro.
il matrimonio;
la maternità;
la posizione pensionistica delle donne.
L’Italia, in questo contesto ha un punteggio mediamente alto, stabilizzatosi da 4-5 anni al 94,38.
Ma non esiste ancora parità!
L’importanza del ruolo della donna nel mondo del lavoro sembra un fatto ormai pacificamente riconosciuto.
Numerosi sono gli studi che dimostrano come il ruolo femminile, sia in ambito lavorativo, economico, finanziario, sociale e sportivo, abbia un impatto significativo sullo sviluppo e sulla crescita di un Paese.
In Italia l’impianto normativo esistente sembra garantire una sostanziale parità giuridica per quanto riguarda le regole di accesso al lavoro unitamente alle regole di svolgimento dello stesso e da tempo ci si muove in un’ottica di progressiva eliminazione delle discriminazioni fondate sul genere.
Da lungo tempo si combatte contro le disparità tuttora riscontrabili nella pratica e contro il fenomeno della scarsa partecipazione delle donne al mercato del lavoro.
Disparità sovente riscontrabili in quei contesti ove, a parità di tutele normative, permangono notevoli differenze tra uomini e donne a livello di prospettive di carriera, di qualificazione professionale, di formazione imprenditoriale, di parità di retribuzione.
Tali disparità consentono, purtroppo, di affermare che il cammino sinora percorso è stato contrassegnato da numerosi successi, ma che la strada da percorrere è ancora lunga.
foto di Sora Shimazaki
Occorre quindi adottare ulteriori, nuovi e diversi strumenti per superare, nei fatti, effettive disuguaglianze.
E’ infatti indispensabile che nell’ambito di una collettività si lavori tutti insieme, sia sotto il profilo dei cambiamenti culturali, economici e sportivi, sia sotto il profilo dei cambiamenti materiali.
I cambiamenti di breve respiro, sovente tamponano soltanto un’emergenza, quelli più duraturi si possono realizzare solo con il contributo di tutte e di tutti.
Arriveremo in tempi brevi alla parità tra uomini e donne nello sport e nel mondo del lavoro?
“Proprio giorni fa il Ministro dello Sport Vincenzo Spadafora ha assicurato che a gennaio 2021 il professionismo dello sport femminile sarà legge. Potrebbe essere una svolta importante che rivoluzionerebbe il mondo dello sport anche se conosciamo tutti i tempi e gli imprevisti della politica.
Ad ogni modo in un momento così difficile e confuso per lo sport in generale si comincia ad intravedere una piccola speranza”.
La parità di genere è strettamente legata alla giustizia sociale e rappresenta uno degli Obietti cardine dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile.
L’Agenda 2030 rappresenta un’opportunità importante per unire gli sforzi a livello globale e sviluppare politiche coerenti per il raggiungimento dell’uguaglianza di genere.
Siamo davvero onorati di annunciare, ai tanti visitatori del nostro blog, che uno dei più stimati professori del mondo sportivo ci ha regalato la possibilità di pubblicare i suoi pensieri, riflessioni o osservazioni.
E’ una grande gioia confermare che la nostra biblioteca virtuale si arricchirà di articoli firmati dal prof. Maurizio Mondoni.
Oltre ad essere professore universitario nei corsi di laurea in Scienze motorie e scienze della formazione è collaboratore di diverse testate giornalistiche sportive e riviste specializzate di:
La pratica sportiva in Italia non è molto diffusa, tuttavia, se consideriamo i praticanti di tutte le discipline, giungiamo a una cifra piuttosto considerevole.
Il numero di ragazzi in età scolare che pratica sport è così elevato da permettere l’identificazione di una vera e propria tipologia di alunno chiamata “studente-atleta” che, tuttavia, è ancora sconosciuta, se non apertamente ignorata od osteggiata da una parte d’insegnanti…
Chi sono, esattamente, gli studenti-atleti?
Si tratta di ragazzi che praticano sport in maniera agonistica sottoponendosi a numerosi ed estenuanti allenamenti settimanali (spesso anche più di dieci) e che al contempo frequentano la scuola.
Va da sé che, a differenza dei compagni, questi alunni hanno poco tempo a disposizione da dedicare allo studio e spesso sono assenti per via di gare e ritiri con le squadre nazionali.
Foto di Julia M Cameron
Il documento
Nel 2012 la Commissione Europea ha stilato un documento nel quale ha riconosciuto ufficialmente che gli studenti-atleti necessitano di speciali attenzioni psico-educative e pertanto la scuola deve introdurre percorsi specifici che vadano incontro alle loro esigenze.
Prevede la stesura di un Progetto Formativo Personalizzato che permette la personalizzazione dell’apprendimento sulle esigenze del singolo alunno, diversificando metodologie, tempi e strumenti.
L’iniziativa è sicuramente lodevole ma non bisogna pensare che sia il punto d’arrivo dell’inclusione dei giovani atleti a scuola.
Il programma, purtroppo, presenta diverse criticità: tre quelle fondamentali.
In primo luogo:
è permessa la partecipazione soltanto alle istituzioni secondarie di secondo grado, dimenticandosi di tutti i ragazzi che praticano sport a specializzazione precoce come
sebbene il Ministero dell’istruzione (ex MIUR) riconosca apertamente che gli studenti-atleti siano costretti a un numero superiore di assenze a causa di raduni e gare, non viene indicata nessuna soluzione al problema, lasciando l’iniziativa a presidi e insegnanti.
Infine:
il procedimento per partecipare al programma è molto lungo e macchinoso.
Ecco i perchè
Il ragazzo, di sua iniziativa, deve richiedere alla propria federazione un attestato che assicuri il suo status di atleta di interesse nazionale;
la certificazione deve essere presentata presso la segreteria scolastica;
la scuola deve compilare ed inviare la richiesta per la partecipazione alla sperimentazione;
il Consiglio di classe deve coinvolgere il docente referente dell’area BES (Bisogni educativi speciali) ed individuare un tutor scolastico;
per conoscere il referente sportivo deve mettersi in contatto con la federazione di appartenenza;
deve provvedere alla stesura del Progetto Formativo Personalizzato e farlo pervenire alla commissione esaminatrice che dovrà approvarlo;
per usufruire della piattaforma e-learning messa a disposizione dal Ministero dell’Istruzione, il consiglio di classe deve fare un’ulteriore richiesta.
Tutto ciò deve avvenire in tempi brevissimi (entro ottobre), mentre durante l’anno i docenti coinvolti dovranno partecipare ad una formazione professionale specifica.
Da quanto detto appare evidente come il PFP debba essere visto come un punto di partenza ma sicuramente non d’arrivo.
Innanzitutto, l’attuazione del progetto dovrebbe essere snellita, la partecipazione ampliata alle scuole secondarie di primo grado e andrebbe prevista una soluzione ufficiale per il problema delle assenze.
Infine, l’aspetto più importante è che la sperimentazione non resti tale ma si tramuti in legge.
Finché ciò non avverrà, continueranno ad esserci disuguaglianze e disparità di trattamento da una scuola all’altra poiché tutto è demandato alla sensibilità e al giudizio personale dei singoli insegnanti che,
nella maggior parte dei casi, considerano lo sport come una disciplina di secondo livello al punto tale da spingere gli alunni ad abbandonare la carriera sportiva.
Come lo sport, a livello agonistico, può convivere con la scuola.
L’attività motoria rappresenta un elemento fondamentale della crescita psico-fisica dei più piccoli, nonché uno strumento primario per la tutela della salute dei giovani e meno giovani.
Tra i suo tanti benefici, aiuta a dosare l’energia e liberare la fantasia, maturando l’importanza dell’osservare gli altri e ad interagire con le differenze.
Le attività motorie e sportive,…
…in tal senso, possono contribuire allo sviluppo dell’autonomia personale e, parallelamente, alla formazione di una coscienza civica, in grado di influire sugli stili di vita con interventi educativi.
Equilibrio
Durante la mia carriera sportiva ho conosciuto molti ragazzi e ragazze che spesso non riescono a calibrare la propria vita tra la sfera sportiva e quella scolastica.
Sviluppano emozioni contrastanti:
gioia
soddisfazione
entusiasmo
ma anche:
sensi di colpa
di inadeguatezza
autosvalutazione di sé.
Purtroppo, ancora oggi, l’annosa rivalità tra i risultati sportivi e quelli scolastici è all’ordine del giorno.
Non è certo un limite il conseguire risultati in campo sportivo, semmai una risorsa.
Quest’ultima incide molto negli adolescenti che con fatica riescono ad avere fiducia delle proprie potenzialità e credere in se stessi.
Lo sport e la scuola sono le due colonne portanti per la costruzione di un individuo.
Gli ottimi risultati ottenuti da entrambi non possono far altro che accrescere la sua autostima giorno per giorno ma, in egual modo, qualora dovessero presentarsi delle difficoltà, questo potrebbe scaturire una condizione di malessere e di disagio psicologico
Un esempio
avere molti compiti spesso comporta a rinunciare ad una competizione importante oppure è la partecipazione ad un evento sportivo che può far tralasciare lo studio.
Il successo e il fallimento sono i principali elementi che alimentano lo sviluppo del Sé, la formazione dell’ identità personale.
Le ricerche
Numerose ricerche evidenziano che tanti bambini/e e ragazzi/e, che a scuola riportano delle difficoltà più o meno riconosciute, come un disturbo dell’apprendimento oppure la difficoltà di concentrazione, spesso trovano nello sport un aiuto e una sana alternativa che possa agevolarli nel campo scolastico.
Una ricerca del 2014 presso l’Harvard Medical School di Boston, in collaborazione con il Dana-Farber Cancer Institute, ha rilevato che appena il 54% delle scuole prevede lo svolgimento di attività motoria extracurricolare e solo 1 scuola su 3 ha coinvolto i genitori in iniziative favorenti una corretta alimentazione e l’attività motoria.
È molto importante offrire proposte operative finalizzate a sensibilizzare, sia gli alunni, sia le famiglie all’importanza del movimento e delle attività motorie per la crescita e la salute.
In termini scientifici, è importante stimolare attraverso la pratica sportiva la sintesi di una molecola neuroprotettiva (irisina) che potenzia le funzioni cognitive.
È una molecola scoperta recentemente prodotta dal muscolo scheletrico durante l’esercizio fisico, spiegando gli effetti positivi dell’esercizio sul metabolismo dell’organismo in toto, che riduce la probabilità dell’insorgenza di malattie metaboliche, quali il diabete mellito, l’obesità e la sindrome metabolica.
Bisogna imparare a non mettere sempre a confronto scuola e sport, ma farle sussistere in un reciproco rapporto di compresenza.
Conclusione
I genitori, attraverso la loro educazione, devono trasmettere questo valore ai loro figli e aiutarli nell’organizzazione della loro giornata, sia scolastica che sportiva, dando un valore equiparato ad entrambe le discipline, senza mai influenzarlo o condizionarlo, bensì guidarlo nelle scelte.
In conclusione, credo che sia necessario stimolare nel ragazzo/a un’idea di “auto-esigenza”, cioè cercare di dare sempre il meglio di sé stessi, sapersi organizzare e, se necessario, fare piccoli sacrifici per raggiungere i propri obiettivi.
In questo modo accresce nel ragazzo la responsabilità delle proprie scelte e avere la maturità necessaria per affrontare le difficoltà, nel caso in cui dovessero presentarsi, senza ricorrere ad alibi morale o l’intervento di un adulto.
L’argomento che il nostro coach, Sergio Luise, tratterà fa parte di un aspetto del lavoro di allenatore professionista che meriterebbe diversi approfondimenti, ognuno dei quali potrebbe essere il principale tema di successivi articoli.
“Si potrebbe, infatti, riflettere sull’effettiva funzionalità di trasmettere ai giocatori i report tecnici della squadra avversaria, cosa trasmettere, quando trasmettere e ovviamente come trasmetterli”.
La mia opinione
A volte si attribuisce troppa importanza, da parte di noi allenatori, alla condivisione con i giocatori di ciò che fanno gli altri.
Già nell’organizzazione della settimana durante la pre-season diverso spazio viene riservato a quelle che noi chiamiamo riunioni tecniche, ovvero, lo sharing di clips, prontamente realizzate dallo staff, alla squadra.
Sono proprio quest’ultime che permettono ai propri giocatori di conoscere il più possibile degli avversari, sia dal punto di vista tecnico che tattico.
Ogni stagione, nel programmare il lavoro settimanale, mi faccio alcune domande:
cosa facciamo vedere alla nostra squadra degli avversari?
In che momento della settimana?
Quanto tempo dedicare a cosa fanno gli altri?
Cosa voglio che memorizzino da utilizzare durante una partita?
Non si hanno risposte univoche
Dipende dal tipo di roster che si ha a disposizione;
Dal livello di conoscenza della pallacanestro dei propri giocatori
(magari una squadra esperta riconosce più facilmente le situazioni di gioco);
dal vissuto insieme della propria squadra
(una squadra nuova ha probabilmente più bisogno di lavorare sulle proprie situazioni).
Ci sarebbe, appunto, da scrivere diversi articoli per esprimere meglio i vari punti di vista!
Idea su come agevolare la memorizzazione delle situazioni di gioco d’attacco della squadra avversaria.
Il grosso del lavoro è ovviamente svolto dallo staff nei giorni precedenti, spesso anche nella settimana precedente, rispetto al momento in cui si decide di esporlo alla squadra.
Dopo aver analizzato diverse partite, si esegue lo scout dei giochi degli avversari, si opera dello screening e si decide cosa proporre.
Normalmente è la seconda parte della settimana il momento in cui vengono trasferite le informazioni, anche se personalmente, preferisco, dalle primissime ore di allenamento, estrapolare un paio di situazioni di attacco degli avversari e lavorarci su
(in questa fase parliamo di lavori a secco, arrivando al massimo al 2 vs 2, senza specificare le chiamate o l’intera esecuzione del gioco!).
Entriamo, ora, nel vivo del trasferimento delle informazioni ai giocatori
Ogni allenatore, ogni staff tecnico, ha un suo modus operandi, per me, come dicevo prima, molto dipende anche dal tipo di squadra che si sta allenando.
Primo momento
Preferisco, a metà settimana, lavorare in maniera analitica (non oltre il 4 vs 4) “spezzettando” i giochi avversari e focalizzando l’attenzione dei miei giocatori solo sul movimento:
Pick & roll – May 3, 2015; Oakland, CA, USA; Golden State Warriors forward Draymond Green (23) sets a screen on Memphis Grizzlies forward Tony Allen (9) as guard Klay Thompson (11) dribbles the ball during the first quarter in game one of the second round of the NBA Playoffs at Oracle Arena. Mandatory Credit: Cary Edmondson-USA TODAY Sports
mostrando loro come si arriva alla situazione tattica.
Mi piace, se le condizioni lo permettono, mostrare con le clips quello che poi andremo a proporre sul campo.
Non chiedo loro di memorizzare la chiamata, né tutta l’esecuzione, ma chiedo la massima attenzione sulle nostre scelte tattiche riguardo all’obiettivo del gioco.
Se voglio fare più riunioni video alla settimana, preferisco siano molto brevi, obiettivo memoria visiva!
Secondo momento
Avvicinandoci al giorno della partita mostreremo loro i giochi scelti in maniera completa, tutta la loro esecuzione e il loro sviluppo.
La riunione sarà più lunga, può anche presentare giochi non provati precedentemente, enfatizzando però sempre l’obiettivo del movimento offensivo.
Tutti i giocatori proveranno attacco e difesa, mostrando le varie opzioni del set offensivo.
Rinforzeremo le nostre scelte anche facendo riferimento alle caratteristiche individuali degli avversari, dando gli accoppiamenti.
In questo caso si chiederà al giocatore di memorizzare anche la chiamata.
Di quanti giochi?
Avendo lavorato molto per obiettivi durante la settimana non voglio siano troppe le chiamate da ricordare,
preferisco un maggior sforzo circa il riconoscere la situazione di attacco e quindi operare la scelta difensiva allenata!
In ogni caso, dalla prima riunione incentrata sui giochi avversari, si fornisce anche del materiale in cui vengono disegnati i movimenti avversari, oltre a ritrovarli nello spogliatoio affissi nelle varie bacheche.
Conclusione
All’inizio della mia carriera l’unico metodo era distribuire del materiale cartaceo, dove oltre i disegni vi erano anche spiegazioni circa le varie scelte.
Ora si utilizzano applicazioni, software, che permettono lo sharing dei montaggi video (lavoriamo sempre di più con giovani abituati più a vedere che a leggere.. è fondamentale adeguarsi!).
Questa è solo una proposta di lavoro.
Proposta da modellare sulle qualità degli avversari e soprattutto sulle capacità della propria squadra, ma mi piacerebbe, invero,
Foto di Amine M’Siouri
suscitare delle riflessioni su quanto sia utile il mostrare ciò che fanno gli altri, su quale aspetto tecnico/tattico mettere maggior attenzione (magari più spazio alle caratteristiche individuali?!) e su quanto tempo della nostra settimana dedicargli.
In questi giorni ci stiamo beando delle immagini che provengono da oltre oceano, fortunatamente la NBA e la WNBA sono riprese e ci stanno fornendo milioni di spunti oltre alla visione di partite spettacolari nonostante la mancanza degli spettatori, che in arene come quelle americane sicuramente rappresentano un valore aggiunto.
Prendo spunto…
non dalle clips spettacolari di LeBron o di Doncic e via dicendo ma da due rimesse che avevano una esecuzione simile ma che non sono andate entrambe a buon fine.
Stesse rimesse laterali, con lo stesso scopo, quello di liberare il tiratore vicino il lato della rimessa ed, in ultima ipotesi, avere la forza e la capacità di vedere l’uomo che era libero vicino la linea laterale opposta.
I Raptors riescono nel capolavoro, il passatore riesce a vedere l’uomo libero dal lato opposto, che a 5 decimi di secondo tira e segna da 3 punti ribaltando il risultato.
Se ci soffermiamo su questa situazione ci possono essere tantissime cosa da sottolineare, un milioni di particolari, ma mi fermo al “semplice” gesto del passaggio da una linea laterale all’altra, tralasciando l’aspetto che chi ha tirato lo ha fatto in 5 decimi di secondo!!!
Quel passaggio racchiude: gesto tecnico, forza e lettura mentre i compagni si muovevano.
E’ ovvio che chi è un giocatore della NBA sa passare la palla nel modo giusto.
Mi aggancio ad uno dei tormentoni di coach Andrea Capobianco che giustamente afferma:
“ dire passa la palla bene ad un giocatore non significa nulla”.
Insegnare ad un giocatore come si passa la palla e soffermarsi su quale tipo di passaggio deve fare in base alla situazione di gioco ovviamente non è un male.
Nel caso della rimessa dei Raptors era un passaggio lob.
Mi chiedo tutti i nostri giocatori sanno veramente come si effettua un tale passaggio?
Per effettuare un tale passaggio ci vuole:
la tecnica
la forza, che deve essere tale da far arrivare la palla velocemente da un lato all’altro del campo in maniera precisa, con un Big man messo volutamente dalla panchina avversaria ad ostacolarne la visione ed il passaggio.
la lettura, bisogna “leggere” la situazione
nel caso che esaminiamo si deve leggere il tutto, in pochissimo tempo, per effettuare la rimessa ed effettuare un tiro a 5 decimi di secondo.
La lettura del gioco
E’ un aspetto molto complesso, che ci porta ad una discussione infinita.
Di solito in palestra lo stimolo esterno che hanno i nostri ragazzi è principalmente la nostra voce, che dopo un po’ puo’ stancare, ed allora:
perché non trovare altri stimoli da inserire durante i nostri allenamenti.
Coach Massimo Antonelli di Tam Tam Basket usa la musica per migliorare il gesto tecnico dei ragazzi, ma esistono altri strumenti per migliorare i nostri ragazzi.
In questi giorni ho visto un lavoro eccellente creato da Coach Massimo Riga che attraverso le luci, i colori, l’uso di cartelloni cerca di dare un approccio differente al lavoro in palestra.
Massimo Riga con la maglia della nazionale italiana
Senza gridare:
tieni la testa alta
usa delle lampade che rispondono a certi impulsi.
Posizionati in base al lavoro che intende effettuare danno la possibilità di non dover più gridare “testa alta”, oppure “passa la palla”.
(situazione tipica: il coach dice “passa la palla”, ovviamente lo sente anche l’avversario, e la palla viene rubata).
Usando stimoli diversi, i ragazzi reagiscono a questi stimoli ed il coach lavora, insieme al ragazzo, sul gesto tecnico.
Conclusione
Guardo – sento – leggo, dove, però, la lettura è frutto di un impulso non indotto dal coach ma è una reazione che il giocatore ha, vedendo quello che succede in campo.
Tornando alla rimessa Raptors tutti i giocatori vicino alla palla sono fermati dai cambi difensivi degli avversari mentre la luce si accende lontano dalla palla,
“ed io la vedo perché mi sono allenato a vederla”.
Le donne che praticano attività fisica con continuità aumentano, nonostante permanga il gap di genere: secondo il CONI, nel 2016, la differenza maggiore è stata del 22.9% nella fascia d’età tra i 18 e i 19 anni (Centro Studi CONI, 2017).
Il ciclo mestruale è senza dubbio uno dei processi che più differenziano la fisiologia della donna da quella dell’uomo:…
non testimonia solo la corretta funzionalità del sistema riproduttivo, ma spesso viene visto come indice dello stato di salute della donna.
Combinare il calendario del ciclo mestruale con quello degli allenamenti o delle competizioni è uno dei problemi che ogni mese assillano l’atleta donna.
I volumi d’allenamento, le richieste estetiche sport-specifiche e lo stress psicologico possono rompere l’equilibrio ormonale nelle atlete d’élite, essenziale per la periodicità del ciclo.
Gli effetti esercizio-indotti sono solitamente reversibili e tendono a ripristinare il rilascio pulsatile di GnRH e delle altre gonadotropine tramite riposo, adeguato apporto calorico e aumento della massa grassa.
I numerosi piani pluriennali di allenamento ad elevata intensità, la specializzazione precoce ed i contesti sportivi incentrati sui risultati possono ledere lo sviluppo psicofisico dell’atleta che, soprattutto in età puberale, è molto delicato.
Le richieste prestative sembrano stressare maggiormente le donne rispetto agli uomini, sia fisicamente che psicologicamente.
Lo stress psicofisico può essere valutato primariamente attraverso l’intensità d’esercizio
Se questa è di livello moderato, ciò si traduce in un rilascio endogeno di endorfine che contribuisce ad attenuare gli aspetti negativi del ciclo, in particolare in fase mestruale.
Le atlete di endurance, le ginnaste e le ballerine sono le sportive più studiate, poichè hanno dimostrato maggiormente un ciclo mestruale alterato.
È stato visto come nelle atlete di endurance, l’esercizio aerobico prolungato induca un innalzamento a breve termine delle concentrazioni di testosterone indipendentemente dalla fase mestruale (O’Leary et al., 2013).
È interessante notare come atlete predisposte geneticamente ad una maggior concentrazione endogena di androgeni tendano a praticare sport in cui questo profilo ormonale comporti una buona performance.
Le ginnaste di alto livello invece presentano alti livelli di cortisolo con abolizione del suo ciclo circadiano e conseguente squilibrio all’interno dell’asse ormonale.
In queste attività, inoltre, è auspicabile una bassa percentuale di massa grassa ed il ridotto introito calorico provoca notevoli variazioni nei livelli di adiponectina, leptina e grelina che il solo esercizio fisico non sarebbe in grado di modificare.
L’atleta Roberta Bacchetti di Rugby a 7 sport misto di contatto e di situazione
Alti livelli di adiponectina, secreta dal tessuto adiposo, coincidono con un maggior stato infiammatorio ed una ridotta disponibilità energetica.
Esercizio intenso, riduzione della massa corporea e della percentuale di massa grassa tendono a modificare i livelli fisiologici di leptina e grelina.
Questi due ormoni concorrono a regolare la secrezione degli ormoni sessuali e una loro continua variabilità tende a sopprimere il controllo neuroendocrino del ciclo (Ackerman et al., 2012).
Nel lungo periodo, la condizione in cui l’assetto ormonale si discosti dai livelli fisiologici può portare ad un menarca ritardato, oligomenorrea, amenorrea o addirittura alla cosiddetta triade dell’atleta donna.
Quest’ultima condizione presenta amenorrea combinata con scarsa disponibilità energetica e densità ossea ridotta.
Diversi studi hanno dimostrato come ci siano numerose conseguenze se questa condizione interessa il lungo periodo:
aumentato rischio di infortuni muscoloscheletrici;
Secondo diversi studi, gli sport in cui endurance e composizione corporea predominano c’è un’aumentata predisposizione al rischio.
In queste tipologie di attività, le atlete che presentano disturbi mestruali e ridotta massa grassa adottano strategie alimentari per ridurre l’introito calorico, come l’uso abituale di bevande non caloriche e una dieta incentrata su frutta e verdura (Maïmoun et al., 2014).
Donne e sport di endurance: occorre una preparazione fisica adeguata
Per quanto riguarda il metabolismo osseo, sono da valutare sia l’entità del disturbo mestruale, sia il carico iterativo sport specifico (Maïmoun et al., 2016).
Com’è noto, l’esercizio fisico incentiva l’attività degli osteoblasti:
questa tipologia di cellule viene stimolata soprattutto nelle attività in cui c’è un maggior stress meccanico (ginnastica);
l’attività osteogenica si riduce così in attività come il nuoto e in minor misura nella corsa e nella danza.
Barrack et al. (2010) hanno dimostrato come le atlete di endurance (40%) abbiano una densità ossea più bassa rispetto alle ballerine o alle ginnaste (10%). Inoltre, la carenza di estrogeni peggiora la struttura trabecolare delle ossa meno coinvolte nell’attività praticata.
Le donne presentano quindi un profilo ormonale molto sensibile al livello di allenamento, allo stato nutrizionale e psicologico.
Una preparazione fisica adeguata ed etica dovrebbe passare per un monitoraggio costante e globale dello stato di salute dell’atleta, specie nelle categorie giovanili.
Saranno proposti, a puntate, alternandosi con i vari esperti della nostra piattaforma che hanno sposato, con grande generosità, la filosofia del nostro blog.
Il movimento è il modo più naturale che abbiamo per entrare in relazione con le cose che ci circondano.
Se si trovano in alto cerchiamo di…
arrivarci allungandoci o spiccando un salto, se sono in basso chinandoci con un piegamento, se sono vicine e davanti a noi camminando, se sono lontane e dobbiamo raggiungerle in fretta correndo.
Con il movimento instauriamo un dialogo con l’ambiente, ogni oggetto diventa accessibile, alla nostra portata.
Mettiamo un piede davanti all’altro ed usiamo una mano insieme all’altra per scoprire il mondo.
Il movimento ha la dinamicità dell’acqua che può essere solo contenuta in una forma, ma ha in più la forza di modificare con la sua energia creativa il contenitore.
Foto di Lukas
La nuova pedagogia del movimento divergente ha lo scopo di avviare un viaggio alla scoperta dell’intelligenza cinestetica, delle sue straordinarie potenzialità e dei suoi inesplorati sentieri.
Permette un collegamento tra il corpo, il mondo intorno a noi e le nostre emozioni.
Il movimento non ha confini e non deve avere frontiere, la sua ripartizione in punti ha solo lo scopo di condividere un’ipotesi di studio:
1) Il movimento automatico
Percorre le vie extrapiramidali e ci porta a dare una risposta meccanica, istintiva, agli stimoli ambientali.
Il midollo spinale è responsabile dei comportamenti automatici e stereotipati.
I riflessi spinali ci permettono una risposta quanto più rapida possibile in seguito a stimoli che segnalano situazioni potenzialmente pericolose per noi
se ad esempio la nostra mano è in contatto con una superficie bollente è fondamentale la reazione immediata dei muscoli senza aspettare l’elaborazione della corteccia cerebrale per evitare un’ustione;
2) Il movimento posturale
Elabora le impercettibili informazioni provenienti dai propriocettori sensoriali e dal midollo spinale;
permette la conoscenza del nostro corpo nello spazio per arrivare a mantenere, attraverso i riflessi posturali, la nostra posizione eretta mentre siamo in piedi o camminiamo;
I propriocettori sono i sensori delle articolazioni, dei muscoli e dei tendini e rilevano la tensione muscolare e la posizione delle articolazioni;
Il segnale che parte dai propriocettori viene trasmesso fino al midollo spinale dal quale si origina un altro impulso nervoso che permette la contrazione involontaria della muscolatura.
3) il movimento convergente
Responsabile del movimento volontario, è più complesso perché integra le informazioni provenienti dai livelli inferiori e da quelli superiori del cervello.
Tutti i movimenti volontari del corpo sono guidati dal cervello, una delle parti più coinvolte nel controllo è la corteccia motoria.
Per realizzare i movimenti diretti verso una meta, la porzione anteriore del lobo frontale del cervello deve prima ricevere le informazioni dagli altri lobi, da quello parietale sulla posizione del corpo nello spazio e da quello temporale sulla memorizzazione delle azioni passate.
Il movimento convergente richiede una elaborazione percettiva, percorre le vie piramidali e ci permette di svolgere azioni volontarie che ripetute con l’allenamento, con l’imitazione di un modello, con l’addestramento, ci specializzano in una disciplina sportiva spesso unilaterale che sviluppa competenze specifiche a discapito di altre abilità motorie.
4) il movimento divergente
E’ la manifestazione espressiva, originale, articolata e consapevole delle nostre energie interiori.
E’ il movimento attento al nostro mondo interno in armonia con quello esterno.
Risana, in questo modo, le vecchie scissioni corpo-mente, ragione – sentimento, pensieri-affetto.
I nostri movimenti volontari non si dissociano dai nostri impulsi profondi.
Il pensiero, il movimento, l’emozione si uniscono in un unico flusso coinvolgendo ogni parte del cervello, si mettono in collegamento il sistema extrapiramidale e quello piramidale che in realtà non sono mai separati.
Il movimento divergente crea connessioni ripristinando il senso di unità. Le connessioni stabiliscono i nessi tra le sensazioni, le emozioni, le immagini e il pensiero, compreso quello laterale.
I gesti non sono frammentati, staccati, robotizzati, divisi perché vivono l’esperienza corporea nella sua pienezza migliorando il nostro modo di comunicare.
Il movimento divergente ci fa esplorare tutte le possibili combinazioni delle azioni motorie attraverso il gioco, una delle attività più serie che esistano, ricordandoci che non abbiamo un corpo, come se fosse un’automobile acquistata da poco, ma che siamo un corpo.
Le aree motorie oltre a quella motoria vera e propria sono quelle delle regioni corticali premotorie e quelle dell’area motoria supplementare.
I movimenti di tipo riflesso si fermano ai livelli inferiori, al midollo spinale, senza arrivare alla corteccia.
A completare il controllo del movimento ci sono poi il cervelletto e i nuclei della base, tra i quali c’è Putamen, una sorta di supereroe tuttofare a forma di guscio di noce.
La corteccia motoria è quella parte del cervello che pianifica, controlla ed esegue i movimenti volontari del corpo dall’alto del centro operativo del lobo frontale.
I movimenti involontari e volontari sono sempre integrati e il movimento divergente permette il loro naturale collegamento.
Il movimento divergente fa così il suo ingresso nelle scienze pedagogiche (Il Movimento divergente, Pasquale Iezza, Aranblu editore, 2001), un ingresso fondamentale perché fecondo di prospettive didattiche e formative nel mondo della scuola e dello sport.
E’ il movimento, apprendista meccanico, specializzato nelle giunzioni neuro-muscolari, nei cambi, nei circuiti e nei gangli di collegamento, ed ha un’officina con tutte le chiavi di accensione dei motoneuroni di qualsiasi cilindrata.
Ha facilitato nuove risposte a discipline sportive che sembravano codificate in modo permanente, basti solo pensare:
Sottolineare quanto sia importante mantenere sotto controllo certi segnali, come la difficoltà a recuperare dopo una sessione di allenamento particolarmente dura, è di una importanza estrema.
I sintomi più evidenti sono:
irritazione muscolare che continua oltre le 48 ore dopo l’esercizio;
cambiamenti notevoli nelle normali funzioni del corpo;
mancanza di motivazione.
Se si nota qualcuno di questi, bisogna modificare:
l’intensità
la durata
la frequenza degli esercizi
e continuare ad osservare qualunque cambiamento.
In seguito a sedute di superallenamento è necessario inserire, in un programma di allenamento, un giorno o due alla settimana esclusivamente dedicati al riposo.
Nel programma di periodizzazione è assolutamente previsto un paio di periodi di riposo “attivo “ che seguono la stagione pre – agonistica e la stagione regolare (o post – agonistica)
E’ il programma pianificato di allenamento di un atleta o di una squadra durante tutto l’anno che culmina in un ottimale livello di condizionamento atletico o in una buona prestazione complessiva in un periodo prestabilito della stagione.
Nello specifico nel basket, che è uno sport in cui ogni partita conta, un allenamento stagionale teso a raggiungere il culmine della forma nei play – off, non è realistico.
Perciò un piano sistematico di allenamento fornisce delle variazioni:
Nell’ Intensità di allenamento (gradi di difficoltà dell’esercizio; la qualità del lavoro);
Nel volume (la quantità di lavoro);
Nella tecnica (abilità specifica al basket e capacità atletiche)
Le variazioni sono attuate per massimizzare l’effetto dell’allenamento e le prestazioni altamente positive.
Manipolando queste variabili, compreso l’allenamento della forza, è possibile preparare un piano efficace per la stagione da iniziare.
Il canottaggio è uno sport semplice: sei barche allineate, partenza al Via! e vince chi arriva prima.
A cosa servono, allora, i giudici arbitro? Dove sono durante la gara?
Può sembrare strano ma sparsi sul campo ci sono non meno di nove umpire e un canottiere li incontra (e li maledice) quasi tutti.
Il problema, nel canottaggio,…
Corso per giudice arbitro di Canottaggio
è che ancora oggi l’arbitro è visto come una figura seccante e pignola che è lì per il solo gusto di tormentare gli atleti.
In realtà, gli allenatori in primis dovrebbero capire che il solo scopo di un giudice è quello di assicurare che la manifestazione si svolga nel miglior modo possibile, garantendo a tutti pari opportunità e massima sicurezza.
Immaginiamo di seguire un canottiere attraverso il campo di gara e scopriamo insieme i compiti degli arbitri.
Il primo incontro con l’autorità lo hanno i timonieri e gli atleti PL (pesi leggeri) quando si recano alla registrazione del peso.
Foto di Patrick Case
Questo è un momento, allo stesso tempo, atteso e temuto dai ragazzi:
da un lato, ci sono la speranza di non superare il peso minimo (o massimo) e la prospettiva di una bella mangiata;
dall’altro il timore di non rientrare nei limiti e dovere ricorrere a metodi dell’ultimo minuto per dimagrire i grammi necessari.
Nonostante le ansie che questo momento comporta, è il secondo step quello ritenuto più irritante: il controllo imbarcazione.
Atleti e tecnici ancora non capiscono la pignoleria riguardante accessori come palline e laccetti, si arrabbiano se vengono mandati indietro e talvolta si rifiutano di apportare le modifiche richieste dal giudice.
Desidero lanciare qui un appello accorato:
Allenatori, atleti, quale piacere pensate possa provare un arbitro nell’impedire a un ragazzino di gareggiare?
Nessuno.
Eppure talvolta è costretto a rifiutare le barche.
La motivazione?
La sicurezza del canottiere.
Dal momento in cui gli sfidanti si preparano a fare il loro ingresso in acqua, gli umpire si trasformano nei loro angeli custodi, e cosa fanno questi se non vegliare sulle persone loro affidate proteggendole?
La pallina e i laccetti, che vi seccano tanto, sono dispositivi introdotti appositamente per la sicurezza dei vostri pupilli nel caso di scontro con altre barche e capovolgimento.
Capite adesso che nulla muove il giudice se non la preoccupazione per i ragazzi?
Torniamo ora alla nostra esplorazione del campo di gara.
Dopo aver superato il controllo identità e imbarcazione, l’atleta è libero di iniziare il riscaldamento sull’acqua.
Qui ci sarà un altro angelo custode pronto a vegliare sui canottieri e a intervenire in caso di incidenti o malori improvvisi.
All’avvicinarsi dell’ora prevista per la gara, i ragazzi si accostano al Marshall, il quale procede con l’appello, in modo tale da assicurarsi che tutti i partecipanti siano presenti.
Il Marshall è un giudice arbitro situato in acqua, al limitare dell’area di riscaldamento, nei pressi della zona di partenza. Ha il compito di fare l’appello degli iscritti e indirizzarli allo starter all’appropinquarsi dell’orario stabilito per la gara.
Dopodiché, lo Starter permette loro di occupare le rispettive corsie.
L’Allineatore, con l’ausilio di attrezzi specifici, fa in modo che la prua di tutte le barche sia perfettamente allineata, poi lo Starter, fatti gli ultimi controlli, dà inizio alla gara con uno sventolio di bandiera.
Il percorso può estendersi da un minimo di 500 metri a un massimo di 2000 ma, per quanto possa sembrare infinito ai concorrenti, questi non verranno lasciati soli neanche un istante perché sempre sarà con loro il giudice pronto a guidarli e soccorrerli in caso di pericolo.
E infine, una volta che la gara si sarà conclusa regolarmente, ecco che gli arbitri all’arrivo (ben tre, per assicurare la massima certezza) potranno comunicare le posizioni finali.
Morale
Adesso, dopo questo immaginario giro su un tipico campo di canottaggio, siete ancora sicuri che i giudici arbitro siano figure messe lì per fare le belle statuine e tormentare gli atleti?
“Chiama un time out!”, “quando lo chiami il time out?!”.
Sono tra le frasi più urlate dagli spettatori a noi allenatori durante la partita, a testimonianza dell’importanza che lo stesso pubblico attribuisce a questo aspetto del GIOCO.
Facciamo però un passo indietro.
Il significato sportivo del termine Time Out è sospensione del tempo, ed era proprio questo il motivo per cui fu inserito nelle regole del nostro sport, ovvero dare la possibilità di riposo ai giocatori.
Era quindi una pausa momentanea dal GIOCO.
L’evoluzione della pallacanestro ha reso, invece, questa interruzione del “giocato” una fase concreta della partita, tanto da essere un’arma tattica che tutti noi allenatori dobbiamo essere in grado di sfruttare a pieno.
Il primo aspetto da tener conto è il numero di time out che ogni squadra ha a disposizione.
Si hanno un massimo di 7 time out per squadra, ognuno con durata di 75 secondi.
Possibilità di chiamare massimo 2 time out negli ultimi 3 minuti, più altri 2 per ogni eventuale supplementare.
Oltre la panchina (allenatore o vice allenatore) la richiesta può avvenire anche direttamente dal giocatore che possiede la palla.
Attenzione però, secondo la regola “televison time out“, durante ogni quarto ad ogni squadra viene obbligatoriamente assegnato un time out per ragioni televisivi anche se non chiamato dalle squadre stesse!
Proprio la gestione del numero dei time out, comporta una prima decisione strategica da parte dello staff.
È fondamentale, infatti, avere sempre ben presente quanti ne restano a disposizione, ipotizzando un loro utilizzo nei momenti decisivi della partita.
Questa scelta dipende molto dal feeling che lo staff tecnico ha con la partita e con i momenti di essa, rimanere senza può costare il risultato finale.
Quando chiamarlo?
Non c’è un’unica risposta a questa domanda.
Può esserci la volontà di modificare il ritmo della squadra avversaria, interrompendo per esempio un break positivo, ma può anche essere la soluzione per cambiare tatticamente delle scelte che non pagano e che hanno bisogno di essere mostrate con “calma“.
Altro significato è il time out chiamato in prossimità degli ultimi secondi di un quarto o per gestire meglio il possesso previa una violazione di tempo, in cui sfruttando una rimessa a favore si mostrano alla squadra le cosiddette situazioni speciali (a.t.o. plays).
Non sempre però la tattica è la protagonista della sospensione, ci sono time out il cui obiettivo è essenzialmente psicologico, dare una scossa ad una squadra o a singoli giocatori in difficoltà.
E’ in questo caso che la conoscenza dei caratteri dei propri uomini è fondamentale per andare a toccare le giuste corde per avere una reazione.
C’è chi ha bisogno del bastone e chi della carota!
Nella mia esperienza da assistente ho lavorato con head coach ai quali piaceva avere un mini time out con l’intero staff prima di comunicare con la squadra, richiedendo quindi sintesi e chiarezza nell’esposizione delle idee proposte, altri invece volevano avere tutto chiaro prima di rivolgersi al tavolo per chiamare la sospensione.
Da capo allenatore io ho sempre preferito la prima soluzione, sfruttavo quel momento anche per lasciare dei secondi sola la squadra affinché parlassero tra loro.
Non raramente, se c’è un’intesa consolidata all’interno dello staff, il capo allenatore lascia condurre il time out al vice, soprattutto se l’indicazione da presentare alla squadra è un’idea dell’assistente.
Importante, comunque, che non ci sia un un’accavallarsi di voci. I giocatori in quei pochi secondi devono avere la massima concentrazione, recepire poche cose ma chiare.
Peggio di non avere time out a disposizione è averlo ma con una squadra che ritorna in campo confusa!
Strategie
Alcune volte si sfruttano i pochi metri che separano le panchine dal campo per suggerire all’orecchio del giocatore le ultime indicazioni mentre il tavolo ha fischiato la fine della sospensione.
Altri che guardano negli occhi i propri giocatori prima di parlare.
Altri che utilizzano solo raramente la lavagnetta.
Conclusione
Ognuno ha la sua tecnica e il suo modus operandi, l’importante è organizzare e sapere cosa si vuol trasmettere in quel momento, senza lasciare nulla all’improvvisazione o chiamare il time out perché lo chiede il pubblico.
Bisogna sempre essere consapevoli di ciò che si sta facendo.
“Finalmente lo hai chiamato!!”…direbbe qualcuno dagli spalti…
Basta essere stati buoni giocatori per essere anche grandi allenatori?
Prescindiamo per una volta dai singoli sport, ma restringiamo però il campo almeno agli sport di squadra, che esigono dinamiche e competenze relazionali assolutamente diverse da quelli di tipo individuale.
Il caso del giorno, è evidente, riguarda Pirlo, neo allenatore della Juve.
La nomina ha fatto scattare, inevitabilmente, parecchie osservazioni sull’opportunità di nominare un allenatore che non ha mai allenato.
Provo a riassumere le principali osservazioni, assumendomi ogni rischio di tralasciare pareri importanti, ma solo a mo’ di sollecitare un approfondimento successivo che non ha alcuna pretesa di essere assoluto.
Tra le tante cose che lo sport insegna c’è il postulato che la sua dinamica è talmente complessa e mutevole da rendere impossibile una previsione che possa avere il requisito minimo dell’attendibilità.
La riflessione
Dunque, esattamente come hanno fatto i virologi parlando di un virus ancora sconosciuto, mi rendo perfettamente conto di addentrarmi in un terreno solo parzialmente conosciuto, per aver ricoperto un ruolo di allenatore per poco più di tre decenni (praticamente nulla), e di rischiare di intravedere dietro l’orizzonte un panorama dal pronostico complesso.
Secondo la mia concezione (ecco, con questa premessa rendo ogni argomentazione soggettiva, e quindi priva della presunzione dell’assolutezza), un allenatore è una somma perfetta ma non compiuta di una serie di competenze, delle quali l’ottima conoscenza del gioco ne costituisce solo una parte.
Veniamo al caso. Pareri discordanti, dicevamo.
Partiamo dai pareri favorevoli.
Primo aspetto: Pirlo è stato eccellente giocatore
Dai piedi ottimi e dalla presenza sempre percepita favorevolmente dal gruppo dei giocatori e delle squadre per le quali ha militato. Requisito a mio avviso che dice molto di più del suo talento.
Essere visto come parte integrante di squadre differenti testimonia una duttilità caratteriale, una personalità ed una identità non solo tecnica che non può che costituire un ottimo viatico per la carriera che si appresta a fare.
Secondo aspetto: conoscenza del gioco
Chi ha giocato molti anni a certi livelli il gioco lo conosce benissimo, ma se hai giocato nel ruolo di playmaker lo conosci senz’altro di più.
Non perché un difensore o una punta abbiano meno capacità di comprensione del gioco, ma indubbiamente se il gioco lo hai creato tu, e lo hai fatto benissimo e per molto tempo, penso che le tue capacità di compenetrarti in una dimensione che esula la tua individualità di giocatore costituisca un asset importantissimo per vedere le cose come coach.
Terzo aspetto favorevole: Pirlo, a detta di Ulivieri (uno dei responsabili dei corsi di Coverciano) è stato un allievo modello
Ha mostrato di conoscere il calcio a menadito (e questo lo avevamo supposto pure se non avesse frequentato il corso).
Non mi dilungherò su quanto un corso sia in grado di apportare significative competenze ad un allenatore specie per allenare a certi livelli, ma dirò subito che, sempre a mio sommesso avviso, da quel punto di vista la percentuale fa fatica ad arrivare alla doppia cifra.
Tra i pareri favorevoli si cita, in questi giorni, il paragone con esempi illustri che hanno fatto strabene nel passato, pur non avendo alcuna o poca esperienza come allenatore.
In casi simili si sono tirati in ballo mostri del calibro di Guardiola e Zidane. Paragoni difficili? Forse. Ma nella dinamica delle cose mi paiono azzeccati nel metodo, meno nel merito. Entriamo allora nel merito.
Ovvio: la scarsa (o inesistente) esperienza di panchina. Vuol dire poco questo?
Se esaminiamo i due big citati, non vorrei scomodare termini come carisma, personalità e via cantando, perché significherebbe porre il povero Andrea in una condizione di subalternità, e non me la sento per palese disconoscenza del suo livello nei temi suddetti.
Parlo solo di un’ultima cosa che a me pare evidente.
Un allenatore che si definisca efficace deve avere una certa capacità di persuasione, la qual cosa non equivale a manipolare, ma semmai a convincere i suoi giocatori ad abbandonare le proprie sacrosante individualità (la maggior parte dei giocatori nutre un egoismo che va spesso a discapito della complessità del gruppo).
Capacità di persuasione equivale in molti casi ad avere qualità comunicative e di estroversione che, devo essere onesto, in Pirlo ho notato assai poco.
Ovvio che il mio parere si fonda su quel che si vede (interviste, partecipazione a trasmissioni tv, ecc.) quindi mi rendo conto che, anche qui stiamo parlando di impressioni, ma non mi pare che il nuovo allenatore della squadra che è continuamente alla ricerca del tutto e subito, abbia mostrato scioltezza o approfondimento di argomenti e quindi concluso nel modo seguente.
Conclusione
Se Andrea dai piedi d’oro saprà unire alle indubbie conoscenze tecniche e tattiche da lui possedute, anche un netto miglioramento delle sue abilità di conoscenza dei complessi fattori umani che vanno sotto il nome di “dinamiche di gruppo”.
Saprà definire anche attraverso un netto incremento della sua capacità di comunicazione e di persuasione, un vocabolario che gli permetterà di gestire tanto la stella come l’ultimo ragazzo che viene dalle giovanili e coinvolgere tutti in una entusiastica partecipazione anche emotiva alle sorti del club che gli è stato affidato, beh, allora avremo probabilmente l’allenatore ideale.
Ed è, alla fine, quello che si augurano i tifosi della Juventus ed anche tutti quelli che sperano che un bravo e stimato giocatore senza alcun passato da allenatore possa diventare il coach del domani.
Tanto come sempre, il campo rivelerà la verità. In bocca al lupo!
“La calma olimpica. Chi meglio del leggendario Agostino Abbagnale può rappresentare questa espressione? Lui che resta il canottiere italiano più titolato alle Olimpiadi – ben tre ori (Seul, Atlanta e Sydney) – eppure è meno noto dei suoi due fratelloni. Misteri della vita… Intanto, buon lavoro ad Agostino, impegnato a Piediluco con la nazionale Junior.”
Era ovvio e più che doveroso chiedere ad Agostino di scriverci qualche sua riflessione, opinione o idea nello specifico sul significato della “calma olimpica”.
Contattato non si è tirato indietro e quindi noi di trainingconcept.it siamo molto contenti di comunicare ai nostri lettori che il prossimo articolo, in uscita venerdì 21 agosto 2020, sarà di Agostino Abbagnale.
Nonostante la nostra piattaforma abbia come intento quello di evitare le autocelebrazioni evidenziando il firmatario dell’articolo o tutto ciò che possa sembrare auto elogiativo ( il vero scopo è quello di mettere a disposizione della comunità sportiva articoli di qualità) non si poteva evitare di scrivere qualche riga in più su chi ha portato in alto i colori della nostra bandiera.
Nella sezione “gli esperti dicono” vi è una riassuntiva biografia di Agostino ma è da aggiungere che oltre all’immensità come atleta ne posso garantire la grandezza come uomo.
Di poche parole ma pratico nei fatti, un atleta che ha vinto in 3 barche diverse e per chi lavora nel mondo del canottaggio sa cosa vuol dire.
Dotato di uno spiccato senso del confronto è stato definito dagli esperti “il più grande canottiere italiano di tutti i tempi”.
Si potrebbe continuare ma sfocerei nel banale e quindi mi tocca rimandarvi al prossimo articolo con “la calma olimpica” firmato da Agostino Abbagnale.
“Continua la rubrica dedicata ai lettori che decidono di contribuire offrendo a tutta la nostra comunità la propria riflessione, opinione, idea su di un argomento a loro più vicino. Ci delizia con quest’articolo Virginia Abbagnale (ex atleta di canottaggio, insegnante di lettere e filosofia, attualmente giudice di canottaggio)”
Il canottaggio (e non canoa!) ha tante specialità; la più bella, a mio parere, è l’8+.
Quasi 18 metri di lunghezza per 93 kili, otto vogatori con un lungo remo ciascuno e un timoniere. Chiedi ad un tecnico e questo ti risponderà, ma la verità è che l’ammiraglia è molto di più.
Chiunque ha visto questa barca in azione concorderà con me che si tratta di pura magia:
canottieri che si muovono all’unisono, le grida di incitamento del timoniere, i remi che volano sull’acqua, la pallina che fila via a velocità impossibile. La barca appare leggera come una piuma, veloce come una freccia, i vogatori sembrano un solo uomo e pare che non possa esserci nulla di più facile e naturale.
Sbagliato.
Dietro a questa meravigliosa visione ci sono tanto sudore e lavoro.
C’è la fatica fisica.
“Ora dopo ora, giorno dopo giorno, con il sole afoso che crepa il terreno, con il freddo che gli penetra nelle ossa o con la pioggia che lo acceca, il canottiere non conosce riposo né vacanza.
I giorni rossi sul calendario spariscono e, anzi, sono più faticosi dei neri, la sveglia suona all’alba. Senza sosta il nostro eroe corre, rema, fa pesi e remoergometro. I primi minuti sono facili, divertenti, ma poi inizia a mancargli il respiro, boccheggia disperato alla ricerca d’aria. Contrarre i muscoli è doloroso, un incendio che si propaga senza sosta nelle gambe e nelle braccia, un urlo di dolore si fa strada nella gola, la testa lo prega di smetterla con questa follia, lo supplica di fermarsi perché se farà ancora un altro movimento potrebbe frantumarsi in mille pezzi e non riuscire a ricomporsi.”
È qui che entra in gioco la testa.
Da fuori può sembrare che il canottaggio sia solo uno sport di forza e resistenza fisica ma la verità è che per migliorarsi il controllo mentale è imprescindibile. Il corpo umano è creato per assicurarsi la sopravvivenza, per questo quando lo spingiamo ai limiti entra in atto un meccanismo di autoconservazione che lo porta a fermarsi.
Ehi, sei matto? Fermati, sei vicino alla zona di pericolo!, questo urla la testa.
Ma il canottiere che vuole migliorarsi non può cedere alla tentazione, al dolce richiamo della sirena che tenta di ammaliarlo, e sessione dopo sessione raggiunge il limite, sopporta il dolore e spinge l’asticella dell’autoconservazione un po’ più in là.
Bene, penserete, ecco allora quali sono gli ingredienti per ottenere la magia. E invece no, ne manca ancora uno; quale?, l’assieme.
Per chi fosse a digiuno di canottaggio, si tratta della parola che si usa quando i vogatori si muovono, appunto, tutti insieme.
Anche in questo caso sembra facile ma non è.
Ogni atleta ha una personalità e un ritmo di palata che lo caratterizza, che fa di lui un individuo unico e irripetibile, ma quando è in barca, soprattutto in un’ammiraglia, bisogna superare l’individualità e otto devono diventare uno.
Non è semplice: finché è in barca, il vogatore deve rinunciare alla parte più spontanea e profonda del suo essere, la deve rinchiudere in un angolino della sua testa e deve affidarsi al suo timoniere. Ripone le sue speranze, la sua forza, le sue paure, tutto se stesso nelle mani del compagno. Ci vuole coraggio, un vero e proprio atto di fede.
Ecco, ora finalmente la ricetta è pronta.
La barca lunga e veloce, gli uomini (e donne!) che si muovono come uno solo, la potenza che si sprigiona ad ogni “Via” del timoniere;
L’effettore finale del movimento è il sistema muscolare, che trova nelle sue unità funzionali, i sarcomeri, i protagonisti del suo accorciamento in toto, spiegabile grazie alla teoria dello scorrimento dei filamenti.
I sarcomeri in quanto singola unità, devono sommarsi tra loro per creare il substrato strutturale motorio.
Deve far riflettere come a partire da un evento “banale” quale lo scorrimento di Actina e Miosina, possa derivare una variabilità gestuale estremamente complessa. Per cui la chiave dell’allenamento o della prevenzione di un evento traumatico, deve orientarsi ad ottimizzare tutto quello che precede e consegue la formazione dei ponti trasversali a livello del muscolo e non concentrarsi sul mero rinforzo locale.
A questo possiamo poi aggiungere la maggiore complessità degli sport situazionali, grazie all’interazione del soggetto in questione con gli eventuali compagni di squadra, con l’avversario/i, con le infinite possibilità di variabili legate al gioco e di tutto ciò che ne consegue.
La sommazione dei sarcomeri, da un punto di vista teorico, si effettua in duplice modalità. La sommazione in serie e la sommazione in parallelo.
Se si considera il comportamento di due sarcomeri e si valuta il risultato complessivo di questi, le caratteristiche del movimento derivato di tale organizzazione sarà peculiare.
La sommazione in parallelo porterà ad un quadro di caratteristiche orientate ad un’espressione di forza maggiore, la sommazione in serie darà vantaggio sulla velocità di accorciamento (1).
La forza che il muscolo può esprimere non dipende esclusivamente dall’attività muscolare “pura”, ma può avere man forte dalle strutture passive perimuscolari.
La forza generata dal tessuto contrattile può esprimersi grazia a una duplice modalità di trasmissione, la quale, può essere di tipo diretto o indiretto.
Per cui possiamo avere (2):
Trasmissione Miotendinea, che si esprime agli estremi del muscolo.
Trasmissione Miofasciale, che può avere luogo lungo tutta la lunghezza del sarcomero.
Considerando il modello dello scorrimento dei filamenti e che a livello tendineo il movimento autorizzato sarà una trazione longitudinale al ventre muscolare, all’interno del ventre stesso le forze in gioco saranno di tipo tridimensionale.
I responsabili strutturali di questo sistema accessorio a quello longitudinale possono essere riconducibili all’Epimisio, Perimisio ed Endomisio. Per cui la forza, oltre che nascere dal sistema esclusivamente attivo, può nascere, grazie alle intime relazioni strutturali, anche dallo stroma connettivale (3).
epimisio, endomisio e perimisio
La forza espressa da un singolo sarcomero dipende dal grado di sovrapposizione dei filamenti di actina e miosina. Essa è maggiore a lunghezze intermedie e tende a diminuire a mano che ci allontana da questa lunghezza ottimale.
Sulla base di questo sistema ausiliario di trasmissione di forza, un antagonista muscolare può essere fondamentale per l’ottimizzazione della produzione di forza da parte un dato muscolo, in quanto elemento di stabilizzazione.
In base a tale discorso si può capire come la forza sia angolo e gesto specifica, e di come più ci si allontani dalle caratteristiche tecniche di riferimento, più sarà difficile che la capacità allenante di un dato esercizio possa essere utile al miglioramento della performance.
Questo potrebbe indurre a far credere che esercizi aspecifici o di isolamento abbiano poco senso nell’ambito degli sport di situazione, ovviamente è un’affermazione che va contestualizzata al livello del soggetto (4).
Più un atleta è specializzato e più sarà preponderante la ricerca di una relativa specificità
Negli atleti evoluti si favorirà sempre più un approccio tendente all’ottimizzazione coordinativa gestuale, più che del miglioramento di parametri fisiologici. La stessa considerazione può essere usata per gli esercizi multiarticolari, nei quali potrebbe esservi uno stimolo eccessivo per determinati distretti ed irrisorio per altri.
Anche in tal caso la risposta va cercata nelle esigenze del singolo tramite una valutazione delle esigenze (5).
Considerare il vissuto dell’individuo, i traumi, infortuni, postura dinamica, caratteristiche trasversali, unitamente alle richieste dello sport praticato, è un primo approccio da considerare come riferimento operativo.
CONCLUSIONI
A partire da questo piccolo cappelletto introduttivo, i riferimenti da considerare per orientare il lavoro possono essere riassunti dai seguenti punti:
Colloquio conoscitivo dell’atleta. (Considerare il suo vissuto, il suo stile di vita, la storia dei traumi, le sue esigenze)
Valutazione posturale soprattutto dinamica.
Valutazione delle richieste sport-specifiche. (Soprattutto angoli di lavoro, tipologie di forza maggiormente necessari, tempi di applicazione della forza, traumatismi principali della disciplina svolta)
“Debutta la rubrica dedicata ai lettori che decidono di contribuire offrendo a tutta la nostra comunità la propria riflessione, opinione, idea su di un argomento a loro più vicino.
Questa è la volta di Francesco Callipo (giovane allenatore di pallacanestro).
All’inizio del percorso formativo e di sviluppo di un giovane atleta l’impatto con il gruppo squadra può essere determinante, sulla velocità di apprendimento e sulla definizione di alcuni aspetti caratteriali del ragazzo, quali autocontrollo e impulsività, equilibrio e aggressività, leadership e disponibilità.
A partire dal Minibasket arrivando al Settore Giovanile, quasi la totalità dei ragazzi mantiene, come è normale che sia, un’impostazione individualista degli aspetti legati al gioco.
In questo senso il Gruppo, il gioco di squadra e le attività di collaborazione possono, anzi, devono costituire un impatto emotivo che stimoli il giovane a sviluppare nuove capacità relazionali e diverse abilità nella gestione della propria emotività.
Il ruolo dell’allenatoredeve essere quello di generare costantemente stimoli ai singoli atleti per provocare reazioni che li inducono a cercare delle motivazioni.
L’allenatore dovrà trasmettere all’allievo, con empatia e determinazione, le seguenti competenze:
Requisiti comportamentali – attitudinali, cercando di migliorare la loro soglia dell’attenzione. Saranno così in grado di recepire e processare le indicazioni che gli vengono fornite.
Requisiti fisici, che devono essere specifici, funzionali e mirati al fisico di ognuno, dedicandogli almeno 1/3 del lavoro settimanale. Col tempo, devono anche imparare a gestire il dolore o una limitazione, per evitare che, in futuro, non riesca a fronteggiare un problema di natura fisica che lo freni in fase di sviluppo.
Requisiti tecnici, nello specifico, avere la padronanza dello spazio e del tempo, ovvero sapere dove andare e quando farlo.Superato il minimo disagio, che tale reazione genera, il ragazzo si aprirà completamente al gruppo, per diventarne parte integrante con i propri pregi e difetti.Inoltre potrà, indirettamente, insegnare agli altri e, direttamente, imparare da tutti.
Superato il minimo disagio, che tale reazione genera, il ragazzo si aprirà completamente al gruppo, per diventarne parte integrante con i propri pregi e difetti.
Inoltre potrà, indirettamente, insegnare agli altri e, direttamente, imparare da tutti.
Affinchè tutto ciò avvenga, è fondamentale che i ragazzi siano sempre disposti a mettersi in gioco.
L’Allenatore ha la responsabilità di doversi guadagnare la fiducia degli atleti, per potergli dare sempre sicurezza e loro, in cambio non negheranno la propria disponibilità all’apprendimento e alla partecipazione.
Elemento di base, solido e determinante, è la Credibilità che l’allenatore riesce ad ottenere attraverso i comportamenti e le scelte, che devono essere sempre coerenti e adatte per ogni singolo atleta, anche se dovessero andare controcorrente.
Per il bene del ragazzo, per la sua maturazione prima e per il miglioramento del gruppo dopo, è di vitale importanza che acquisisca la consapevolezza che un “no” non è sintomo di fallimento, bensì è parte integrante del percorso di crescita.
In ogni caso, alla base ci siamo noi Allenatori, i quali con il comportamento, l’etica del lavoro e la tenacia sportiva trasmettiamo dei messaggi agli atleti che apprendono, modificano e ripropongono o in maniera positiva (superando gli ostacoli) o negativa (diventando poi abitudini difficili da cambiare).
Essenziale sarà lo stabilire regole di comportamento, piani di allenamento, attività di potenziamento, osservazione del gruppo e verifica degli obiettivi durante tutto l’arco dell’anno.
Fissare dei focus raggiungibili, passo dopo passo, magari con traguardi intermedi e soffermarsi ogni tanto a verificare come procedono le attività, senza timore di tornare indietro, se non si è contenti dei risultati prefissati.
Non sempre la colpa è della squadra…forse i compiti devono essere proposti in maniera diversa.
Per questo è necessario continuare a condividere con il gruppo le proprie idee, spiegando la scelta di un certo tipo di lavoro, riconoscendo in ognuno di loro il miglioramento individuale.
Citando le parole del Coach Ettore Messina, “Ci vuole il tempo che ci vuole”, al di là se il ragazzo sia alle prime armi di un gruppo Under 13 o sia un giocatore di Serie A.
Ettore Messina. È tra gli allenatori europei di pallacanestro più titolati, potendo vantare nel suo palmarès ben ventotto trofei con i club, compresi quattro campionati italiani, sei campionati russi, quattro Eurolega, una Coppa delle Coppe e tre VTB United League
Non è semplice, al giorno d’oggi, stare al passo con i ragazzi che sono in continua evoluzione, parallelamente alla tecnologia che li circonda, abituati ad avere tutto e subito, ed a voler raggiungere l’obiettivo nell’immediato, senza avere costanza e pazienza.
Bisogna instaurare un rapporto di fiducia e stima reciproca con gli allievi, in modo tale che, nei momenti di difficoltà, avranno un punto di riferimento che possa alimentare in loro la voglia di continuare nello sport.
Il sacerdote e i chierichetti sono nella sagrestia, prima che inizi la funzione religiosa.
È domenica: dalla porta principale della chiesa il vociare è sempre composto data la sacralità del luogo, ma nella sagrestia arriva lo stesso quel brusio tipico di quando la gente riempie i banchi.
La gente, quella massa che non riesci mai a distinguere quando stanno tutti assieme che sembrano formare un tutt’uno, quando non è ancora diventata una massa, la avverti, pure in un…
luogo di raccoglimento come quello.
Lo spogliatoio di una squadra di basket prima della funzione (pardon, prima della partita), ha molto di quel raccoglimento.
Questo luogo inviolabile e invalicabile a chi non fa parte di una ristretta cerchia di eletti, è uno dei luoghi più delicati, importanti e simbolici dello sport, sia di squadra che individuale.
Naturalmente le dinamiche tra sport individuale e di squadra sono diverse, ma quei muri, quelle panche e quegli armadietti, quegli attaccapanni e quella porta che delimita il confine, hanno visto e udito cose inenarrabili. Le hanno udite anche quando dentro quelle mura non parlava nessuno.
Il rito del pre-partita è uno dei momenti che nel basket, e in pochissime altre discipline, assume una sacralità totale. Più la partita assume un significato, più quel rito si fa intenso, assoluto, liturgico.
Il sacerdote che deve dare le disposizioni, nel basket si chiama in un altro modo, all’italiana è l’allenatore, ma è sempre più usato il nome di coach. Coach è la guida – ed è proprio una guida, in tutti i sensi il ruolo che lui esercita.
In genere il coach non è, come forse si può pensare, quello che tiene le chiavi dello spogliatoio, anzi è bene che si accosti a quel luogo anche lui con il rispetto che si deve a coloro i quali sono i veri protagonisti della funzione sportiva, che sono ovviamente i giocatori.
Lì dentro, dentro quella che è la loro casa temporanea, ciascun giocatore deve avvertire il suo spazio come se fosse il proprio habitat, egli deve contrassegnare il proprio territorio e sapere che nessuno – neppure il Coach – potrà usurparlo.
È una questione di sentirsi a proprio agio – una delle condizioni essenziali perché la sua prestazione sia ottimale. Non c’è giocatore al mondo che possa giocare bene, allenarsi bene, avere un buon rapporto con sé stesso, con i compagni e con lo staff, se non trova dentro quel rifugio una condizione di assoluta padronanza.
Il coach è bene che chieda permesso prima di entrare, non solo se si tratta di squadra femminile – lì scattano altri meccanismi -, ma anche se si tratta di una squadra di uomini, adulti o ragazzi che siano.
È un’antica forma di rispetto quella che deve usare, è anche attraverso questo simbolismo che lui dà il messaggio di non oltrepassare a suo piacimento quella linea immaginaria che separa il ruolo di guida dalla considerazione che deve avere per ciascuno dei suoi atleti.
Ci sono codici che non si imparano in nessun corso, che nessuna regola ti impone, ma che sono scritte indelebilmente dentro un rapporto trigonometrico: allenatori – staff -giocatori, che ha le sue regole precise, al violare delle quali si perde qualcosa dentro quelle formule che mantengono in equilibrio la cosa più delicata che vige all’interno di un team: il rispetto reciproco dei ruoli.
E poi, quando alla fine, lui varca quella porta, e la sacrestia si prepara alla funzione che avverrà poco dopo, è lì che il miracolo eucaristico dello sport trova la sua più intensa realizzazione.
Una volta usciti tutti assieme, la squadra ha perso le sue singole individualità e si trasforma in una macchina perfetta nella quale ciascuno ha un compito preciso.
La gente – quella massa indistinguibile che nel frattempo ha preso posto sui banchi – a quel punto, saprà che il rito è pronto per il suo compimento.
Questa “sezione” vuole essere un contributo sempre più solido per tutti quelli che decideranno di frequentare il blog ed interagire in maniera costante.
L’idea nasce dalla consapevolezza che ognuno di noi, acquisendo esperienza, diventa competente nel proprio campo e con generosità potrà metteresi a disposizione della comunità sportiva.
Per iniziare ho chiesto di “aiutarmi” e di “aiutarci” principalmente ad amici incontrati nel percorso di vita professionale, i quali hanno…
suscitato in me una grande stima da “esperti professionisti” in grado di arricchire il mio bagaglio sportivo e di vita.
Ognuno di loro, in un proprio spazio, tenterà di darci spunti, input e feedback sui vari argomenti che di volta in volta andremo a trattare e che ci ricondurranno al settore sportivo.
Oltre che un onore, è un prezioso contributo che concorre a migliorare questa mia idea, nata (come anticipato nella presentazione del blog) senza alcuno scopo di lucro ma solo per migliorare la qualità del mondo sportivo attraverso il confronto “rigorosamente gratuito” avanzando dallo stesso punto di partenza, migliorandoci e formandoci insieme.
Tanti, troppi, molti sono i blog o siti che ci invadono con grossi titoloni per poi scoprire che l’approfondimento, un webinar, un corso on line, una semlplice lettura ha un costo alto e chi lavora in palestra anche solo per passione,sperimenta sulla pelle degli altri a volte facendo bene ma altre volte no.
Si dice che” niente si fa per niente”. Beh in questo caso no.
In questo articolo affronterò un aspetto del mio lavoro che ritengo avere un significato ed un’importanza fondamentale nell’organizzazione e nella realizzazione di una stagione lavorativa: il lavoro svolto ancora prima dell’inizio del raduno.
Faccio riferimento ad un periodo di circa 2 mesi, immediatamente dopo la formazione dello staff tecnico e ben lontani dal campo e dalla palestra in cui la conoscenza e l’intesa tra il capo allenatore ed i suoi assistenti viene affinata e, dalla quale, attraverso il confronto, vengono pensate e gettate le fondamenta della squadra.
L’allenatore, di concerto con i suoi collaboratori,…
stabilisce le linee guida sia tecniche che gestionali, l’organizzazione delle settimane lavorative, il numero di allenamenti, gli orari, il numero degli atleti del settore giovanile aggregati alla prima squadra, in particolar modo, durante il periodo della preparazione pre – season.
Tanti sono gli incontri, anche con i dirigenti che lavorano a più stretto contatto con lo staff, con il fine di creare un corpo unico, punto focale per il raggiungimento degli obiettivi.
Le riunioni e l’organizzazione del lavoro sulle quali in questo contesto voglio porre maggiormente l’attenzione e sottolineare, avendo un ruolo fondamentale per la riuscita positiva della stagione, sono quelle che avvengono nei primissimi giorni dopo la formazione dello staff: la scelta del roster.
È un momento molto delicato, dove gli eventuali errori che possono verificarsi nella scelta dei giocatori, si ripercuoteranno con conseguenze negative per tutto l’anno; sbagliare la chimica di una squadra può essere fatale, non avendo tempo per porvi rimedio.
In uno sport di squadra, in questo caso la pallacanestro, ma, passatemi la mia affermazione critica “a causa della presunta -cultura- sportiva italiana”, il risultato deve essere immediato.
Si parla di pochi mesi se non settimane e, molto spesso, non si ha nemmeno il tempo per rimediare ad un errore di costruzione pagando con il posto di lavoro, il cosiddetto ESONERO.
Ciò nonostante è un lavoro molto stimolante, dove si uniscono speranze e convinzioni, dove nelle menti degli allenatori e dei suoi assistenti si forma il disegno del team e di come si vorrebbe che si giocasse.
Si visionano parecchi video, è il momento in cui si traggono i frutti di un lavoro che ormai tutti gli allenatori e gli assistenti svolgono durante l’anno, il lavoro di scouting!
Ognuno ha il suo sistema per dar vita ad un vero e proprio database.
I giocatori vengono divisi in base ai ruoli, alla nazionalità o in altri casi per passaporto, in base ai campionati in cui hanno giocato, per poi assegnarli un giudizio sulle proprie caratteristiche e sulla loro possibile adattabilità al campionato.
Discorso leggermente diverso per gli atleti seguiti da diversi anni, a cui viene assegnato, oltre a quanto detto prima, anche un giudizio riguardo i loro miglioramenti e la loro crescita. Può verificarsi che non sono adatti o pronti in un determinato anno, ma che diventano i prescelti per un altro.
É il momento di intensificare, con cadenza quotidiana, i contatti con le varie agenzie di procuratori che forniscono le loro liste di giocatori e i video dei loro assistiti. È il momento di continui confronti e di redarre report da presentare ai dirigenti responsabili.
Giornate lunghe, spesso finiscono a notte fonda, alcune positive, molte altre deludenti per non essere riusciti a “firmare” un obiettivo, ma sempre utili per accrescere le proprie conoscenze in termini di giocatori.
Negli ultimi anni la difficoltà di reperire video e immagini di giocatori è notevolmente ridotta. Non è più una sorpresa ritrovarsi a visionare highlights o partite con poco significato. Qui la critica, sempre costruttiva, è verso i procuratori che, nel tentativo di promuovere i loro clienti , esaltano in maniera troppo evidente le gesta, rischiando di essere poco attendibili e funzionali alla causa.
Credo, invece, sia importante verificare anche il perché un determinato giocatore abbia giocato male e in che modo sia stato messo in difficoltà.
Per ovviare un pò a questa problematica entra in gioco la rete di contatti con altri colleghi o dirigenti di fiducia che ogni allenatore deve avere per poter prendere informazioni (reciproche) anche e soprattutto personali su un possibile acquisto.
La differenza, in un gioco di squadra, la fa il gruppo, la chimica che si riesce ad instaurare, insomma: il giusto equilibrio tra ruoli e uomini.
L’assistente deve operare una prima scrematura dei vari profili da sottoporre al capo allenatore e al manager e tutto ciò richiede una totale fiducia nelle capacità del collaboratore. Da qui la necessità di scoutizzare in maniera autonoma i giocatori e di redigere report precisi che forniscano una valutazione ben codificata (si possono usare punteggi, stelline e stilare classifiche ruolo per ruolo).
É fondamentale, quindi, il confronto sincero e schietto, in alcuni casi anche intenso, ma sempre nel rispetto dei ruoli e degli obiettivi comuni.
Fatta la squadra, si prendono contatti con i giocatori singolarmente, fornendo loro utili informazioni tecniche e tabelle di lavoro personalizzato affinché si presentino al raduno già con una condizione generale “accettabile”. Il tempo è tiranno in molti casi come in questo.
Ultimo aspetto a cui voglio far riferimento è l’organizzazione delle amichevoli e dei tornei preseason, lavoro più arduo di cui si possa pensare.
Negli ultimi anni si deve sempre più convivere con esigenze economiche restrittive nel trovare non meno di 10 partite amichevoli prima del campionato, ricerca che impiega molto tempo e fatica.
Anche in questo caso i contatti con colleghi e dirigenti ci vengono in soccorso, ed è bene mantenerli ed alimentarli durante tutto l’anno, sia per una miglioria reciproca che per interessi lavorativi di entrambi.
Spero sia stato in grado di far capire che mole di lavoro bisogna affrontare, dove si avverte la responsabilità di ciò che si sta facendo, si ha la percezione di dover sbagliare il meno possibile e, aspetto quasi incredibile, è un lavoro che molto spesso le società di appartenenza non riconoscono contrattualmente.
Infatti, nella maggior parte dei nostri contratti, si fa riferimento al raduno come inizio della stagione, dimenticando di tutto ciò che viene prima, che, come più volte sottolineato, ha un valore estremamente importante.
Credo sia il periodo lavorativo più condizionante, in cui si pongono le basi affinché si possa avere una stagione di successo.