“La mobilità articolare è la capacità e la qualità dell’atleta che gli permette di eseguire movimenti con grande ampiezza di oscillazione in una o più articolazioni con le proprie forze o grazie all’intervento di forze esterne”
Un concetto con lo stesso significato di mobilità articolare è quello di flessibilità.
L’articolarità e la capacità di allungamento vanno considerati invece componenti della mobilità articolare e quindi due concetti subordinati ad essa.
La mobilità articolare è un presupposto elementare per un’esecuzione qualitativamente e quantitativamente migliore di un movimento. La sua formazione ottimale, rispetto alle esigenze…
della pallacanestro, svolge un’azione positiva complessa sullo sviluppo dei fattori fisici della prestazione (forza, rapidità, ecc.) o delle abilità motorie di tipo sportivo (ad esempio i vari fondamentali tecnici). Inoltre influisce sullo sfruttamento completo del potenziale di prestazione esistente, sulla preparazione di allenamento e, in misura notevole, sulla prevenzione degli infortuni strettamente correlata con essa. Si tratta di funzioni molto importanti per il gioco della pallacanestro.
Se viene migliorata la mobilità articolare i movimenti possono essere eseguiti con maggiore forza e rapidità, perché viene opposta una minore resistenza da parte dei muscoli antagonisti.
Nella pallacanestro troviamo un tipo di sollecitazione che è caratterizzato, per la maggior parte, da brevi scatti, improvvisi cambi di direzione, arresti, salti, passaggi e tiri. Si tratta di movimenti molto dinamici, spesso aciclici, che esigono non soltanto una muscolatura molto potente, ma anche un’elevata elasticità e capacità di allungamento e rilassamento dei muscoli interessati, qualità che garantiscono una buona tollerabilità del carico e sono un elemento di prevenzione degli infortuni.
L’efficacia dell’allenamento della mobilità articolare per la prevenzione degli infortuni si può ricavare da tutta una serie di studi (cfr. Moller – Schober).
Secondo i su citati studiosi una buona rielaborazione del carico, tra gli altri fattori, è caratterizzata da una capacità individuale ottimale di rilassamento muscolare, che ad esempio viene influenzata positivamente dallo stretching.
Perciò una misura importante, ed indispensabile, di ogni preparazione immediata all’allenamento o alla gara, è rappresentata da un addestramento della mobilità articolare diretto a migliorare l’elasticità e la capacità di allungamento e di rilassamento.
Se si considera che il giocatore di pallacanestro mostra una tendenza alla formazione di squilibri muscolari il lavoro sulla mobilità articolare, integrato nell’allenamento indirizzato ad allungare i muscoli accorciati, rappresenta un’importante misura di prevenzione che impedisce l’insorgere di processi degenerativi a livello articolare e che si formano stereotipi motori sbagliati od alterati.
Un’efficace prevenzione degli infortuni, con azione sia a breve che a lungo termine, offre la possibilità di sfruttare completamente il potenziale individuale di prestazione e favorisce un migliore atteggiamento verso l’allenamento: se gli atleti non incorrono in infortuni per lunghi periodi di tempo possono sfruttare il loro potenziale in quanto si allenano regolarmente, senza interruzioni, e possono così sviluppare senza condizionamenti negativi la loro capacità di prestazione.
Gli atleti che non hanno problemi muscolari, di legamenti e di tendini, mostrano un atteggiamento mentale positivo verso un allenamento duro ed a lungo termine.
L’atleta eternamente infortunato, alla fine, comincia a dubitare che il suo duro lavoro d’allenamento paghi, visto che ogni volta deve ricominciare da capo, e diventa sempre più incline alla rassegnazione, a tutto discapito della sua motivazione verso l’allenamento.
Allenare in modo ottimale la mobilità articolare è possibile solo se si conoscono sufficientemente le sue basi anatomiche e fisiologiche.
La pallacanestro è uno sport di sacrificio. Dietro ogni partita ci sono il sudore degli atleti, la preparazione meticolosa degli allenatori, il lavoro silenzioso dei preparatori atletici, i sacrifici immensi dei dirigenti e, soprattutto, la passione che spinge all’investimento da parte di proprietari, sponsor e presidenti. Ogni settimana, squadre intere investono tempo ed energie per arrivare pronte alla domenica, per giocarsi tutto in quaranta minuti di passione e strategia. Eppure, troppo spesso, …
…il lavoro di mesi viene spazzato via da decisioni arbitrali incomprensibili, errate o semplicemente incoerenti.
L’arbitro dovrebbe essere un garante della regolarità del gioco, un punto di riferimento che permette agli atleti di esprimersi al meglio nel rispetto delle regole. Ma sempre più frequentemente assistiamo a un’inversione di ruolo: invece di essere un giudice imparziale, l’arbitro diventa il protagonista assoluto della gara.
Fischi discutibili, gestione della partita incoerente, atteggiamenti arroganti: e così la sfida tra due squadre si trasforma in una lotta contro un’autorità
Tutto questo, però, viene spesso vanificato da chi, con un fischio sbagliato, può cambiare l’inerzia di una partita, demoralizzare una squadra e compromettere mesi di lavoro.
Il problema non è solo tecnico, ma anche umano.
Alcuni arbitri sembrano dimenticare che davanti a loro ci sono persone che dedicano la loro vita a questo sport.
Alcuni atteggiamenti arroganti e poco dialoganti non fanno che aumentare la frustrazione di chi vive il basket con passione e professionalità.
Cosa Serve per Migliorare la Situazione?
Il problema degli arbitri non è nuovo, ma si fa sempre più evidente con il passare delle stagioni. La soluzione non è semplice, ma alcuni passi sarebbero fondamentali per garantire maggiore equità e rispetto:
• Formazione più rigorosa: Gli arbitri dovrebbero essere sottoposti a controlli e aggiornamenti costanti, con una valutazione trasparente delle loro prestazioni.
• Maggior dialogo con le squadre: Un arbitro che spiega le proprie decisioni, che mantiene un atteggiamento aperto e rispettoso, è un arbitro che guadagna credibilità.
• Uso della tecnologia: Se in altri sport il supporto tecnologico aiuta a ridurre gli errori, perché nel basket si fa ancora così fatica ad adottarlo in maniera efficace e soprattutto in ogni categoria?
• Più umiltà e meno protagonismo: L’arbitro deve ricordarsi che il suo ruolo è garantire il rispetto delle regole, non diventare il centro della partita.
Conclusione
Il basket è uno sport meraviglioso, fatto di talento, strategia e sacrificio.
Quando a decidere una partita,però, non sono le squadre in campo, bensì decisioni arbitrali errate o atteggiamenti di superiorità ingiustificati, qualcosa si rompe.
È ora di riportare il rispetto al centro del gioco:
rispetto per il lavoro dei proprietari, degli atleti, degli staff tecnici e quelli dirigenziali.
Perché il basket lo fanno loro, non chi fischia dalla linea laterale.
La collaborazione è la base di qualsiasi gruppo, partendo da valori riconosciuti da tutti i componenti
Come si può definire una “vera” squadra?
La squadra è un gruppo di persone preposte allo stesso compito e coordinate per una funzione comune.
Per essere una “vera” squadra non basta…
…vivere tutti sotto lo stesso tetto, nello stesso spogliatoio o in campo durante una partita, tutti i componenti della squadra, sia essa la famiglia o un “team” devono essere allineati, in equilibrio, uniti e con la mente rivolta a costruire un “vero” Team Building.
Foto di Ron Lach
Quando si può definire una famiglia come una “vera” squadra?
Il successo di una “vera” squadra-famiglia è dettato dalla sinergia e dal funzionamento di tutti i componenti: non può gravare tutto su una persona, ci sarebbe uno squilibrio, a lungo andare si perderebbe di efficacia e si creerebbero dei malcontenti.
Divisione dei compiti
Dividersi i compiti in una squadra e in famiglia significa:
riuscire a fare più cose assieme con dei compiti ben delineati;
stancarsi di meno;
essere più sereni;
riuscire a godersi anche del tempo per fare altre cose insieme.
Il fare una cosa, l’ubbidire, il rispettare le regole in casa può diventare più leggero se si cambia il punto di vista.
Nel momento in cui dobbiamo fare qualcosa che non possiamo delegare a nessun altro, possiamo cercare delle modalità più leggere o comunque evitare di partire già “con il piede sbagliato” ed essere insofferenti quando si esegue un dovere.
Il dover ritornare in difesa per un attaccante in una squadra, può essere meno faticoso se contribuisce alle idee dell’allenatore che predilige il gioco a tutto campo.
In una famiglia e in una squadra non ci può essere competizione interna o lo scarica barile:
“Io faccio”, “Tu non fai”, “ Se io faccio …. tu devi fare…”
tutti devono collaborare ed essere a disposizione per il bene comune!
Foto di Andrea Piacquadio
Assolutamente in famiglia e in squadra non ci devono essere rancori e insofferenze nei confronti dei componenti o voglia di rivincita sugli altri.
Fare squadra! Una squadra serve per mettere dei buoni pilastri educativi.
La complicità e la collaborazione
In una famiglia è molto importante la complicità, soprattutto tra i due “capisquadra” il padre e la madre.
Per i figli non c’è niente di più bello che vedere il papà e la mamma che sono:
complici
alleati
collaborativi
e non due realtà individuali che vivono due vite parallele o secondo gli stereotipi classici del maschio che ha delle mansioni e la femmina delle altre.
In una “vera” squadra di calcio, di basket o di volley ci deve essere complicità e collaborazione tra il capitano e gli altri compagni e questa complicità (che non deve essere a danno dell’allenatore) i giocatori la devono creare durante l’allenamento, nello spogliatoio e nel tempo libero.
La casa, lo spogliatoio
In famiglia e in squadra è molto importante il concetto di “insieme” e di fare “con”.
È molto importante che i figli siano educati fin dalla prima infanzia alla collaborazione e non al fatto che devono essere serviti e riveriti.
Non si può preferire un figlio o una figlia rispetto all’altra o all’altro, i figli sono “tutti uguali” e se si pretende che i propri figli comprendano il rispetto, il valore di ciò che si fa per loro e i ruoli, deve passare il messaggio che i genitori sono disponibili, non a disposizione.
lo spogliatoio è sacro, nulla deve uscire dalla spogliatoio, nulla deve uscire dalla casa.
Se i figli non lo capiscono da piccoli, non lo capiranno neanche durante il periodo adolescenziale e cercare di inquadrarli quando sono grandi, diventa un’impresa veramente faticosa che rischia di trasformarsi in una lotta quasi quotidiana.
In uno spogliatoio ci si può dire di tutto ma non deve trapelare all’esterno.
Conclusioni Per evitare di finire a fare un continuo braccio di ferro ed essere sempre in rincorsa, è importante mettere delle buone basi sia in famiglia che in una squadra.
La famiglia e la squadra devono avere dei valori riconosciuti da tutti i componenti e permettono di differenziare ciò che è giusto da ciò che non lo è.
E’ opportuno a questo punto creare un “Team building” oliato alla perfezione e che produca risultati:
La cosa curiosa dei tabelloni segnapunti (e segnatempo) è che se potessero registrare gli sguardi, diventerebbero incandescenti a mano a mano che la partita volge verso la fine.
Se fossi un esperto in matematica direi che il tabellone lo si guarda in maniera inversamente proporzionale allo scorrere del tempo.
il primo per l’evento agonistico in sé che si svolge sul campo,
il secondo per il tabellone,
il terzo per il tavolo dei giudici (a cui ci si interfaccia per le operazioni amministrative della partita).
Ebbene sì, anche una partita ha le sue pratiche burocratiche da espletare.
Il tabellone
Eppure quel tabellone che fa sospirare e penare, dannare e gioire, quei piccoli cristalli rossi che si illuminano formando sostanzialmente numeri, tutta quella roba lì è un grande ingannatore.
Non perché sia bugiardo in sé (non c’è cosa più veritiera dei numeri, com’è noto), ma perché quel tabellone,
se si rischia di fare in modo che sia l’unico a decretare “la polvere o l’altare”, beh quella sì che può essere una cosa ingannevole.
Il risultato finale
Sto parlando del risultato finale.
Quale unico ed assoluto giudice di ogni valutazione ex post di una prestazione?
E sto anche cercando (e sarà impresa non poco faticosa) di dimostrare che quel tabellone deve iniziare ad avere un’importanza relativa e non già assoluta nelle valutazioni di uno staff tecnico e di una società circa la performance della squadra.
Va bene, lo ammetto che la questione è spinosa assai e che investe direttamente la vecchia dicotomia tra fare sport per il gusto di farlo e farlo esclusivamente per vincere.
E’ esattamente il metro con cui si valuta lo sport semiprofessionistico e professionistico.
È questione spinosa anche perché deve ribaltare uno degli assiomi più antichi dello sport e cioè che quest’ultimo è vero solo in funzione dei risultati e che nulla conta al di fuori di quelli, che chiunque viene valutato per quanto ha vinto, eccetera eccetera.
Che se mi permettete, questa è solo una delle variabili in gioco (importante certo, ma ce ne sono anche delle altre).
Quante volte:
ci siamo sentiti dire che la nostra squadra meritava di vincere?
il pubblico ci ha applauditi anche dopo una sconfitta?
gli allenatori avversari si sono sinceramente complimentati per la prestazione fatta anche quando siamo usciti dal campo con le pive nel sacco?
La formalità
Orbene, il mio tentativo da queste colonne sarà tutto teso a dimostrare che tutta quella roba lì, che è accaduta a tutti, certamente anche più di qualche volta, è tutt’altro che formale e che la vittoria non è assolutamente l’unico parametro di valutazione per arrivare a definire se la nostra programmazione, la nostra conduzione di una gara e – purtroppo – non l’epilogo della stessa non sono da buttar via soltanto perché alla fine il punteggio ci vede sconfitti.
Ovvio considerare che se abbiamo perso ci manca ancora qualcosa, ma facciamo veramente attenzione ogni volta ad entrare nel merito della prestazione per sottoporla ad una attenta scannerizzazione che riguarda i quaranta minuti di gioco e non, magari, l’ultimo sfortunato episodio.
Proviamo anche a mettere in atto un’altra strategia.
Quel tabellone fatto di led luminosi rossi che cambiano vertiginosamente con il variare del punteggio, dei tempi di gioco e dei falli, proviamo a guardarlo un po’ meno spesso.
Quel tabellone ci condiziona tremendamente, inconsciamente, subliminalmente.
Faccio un esempio.
A inizio terzo quarto siamo avanti di venticinque:
che effetto questa cosa produce sulle nostre emozioni agonistiche, nella stragrande maggioranza dei casi?
Ritengo che il tabellone sia paradossalmente un nemico più della squadra che è avanti nel punteggio di quella che è in svantaggio.
Quei numeri dicono cose che possono entrare prepotentemente in quella delicata cosa che sono le motivazioni agonistiche che molto spesso spostano gli equilibri con la stessa facilità con cu si ribalta la famosa “inerzia”.
Ovvero quella miscela chimica e psicologica che nessuno ha mai capito fino in fondo ma che tutti gli allenatori conoscono e la “sentono” nell’aria prima che la situazione venga poi di fatto ribaltata sul campo anche se fino a pochi minuti prima il risultato sembrava aver preso una direzione precisa.
Conclusione
E allora, per concludere, qui nessuno vuole scomodare De Coubertin e assecondare quel suo cavalleresco e assai poco attuale aforisma,
in un’epoca nella quale, non solo nello sport, tutti vogliono spudoratamente vincere, sempre e comunque, con ogni mezzo, perfino quelli illeciti.
Tutto si giustifica nella moderna società della competizione sull’altare del “vincere e vinceremo”. (Duce, ci scusi la citazione).
Eppure sento che la vera e profonda ragione per giudicare cosa siamo veramente, cosa abbiamo realizzato veramente in quella partita, cosa serve veramente per trasformare quel granello di sabbia che è mancato nella valanga che occorre per superare la corrente:
sta nel superare il senso del punteggio decretato dal tabellone quando termina la sua corsa e dice 00:00.
Due considerazioni finali
La prima è che nessuno gioca mai a perdere e tutto questo non riguarda affatto l’aspetto delle giustificazioni o degli alibi per una sconfitta
quella sì, che sarebbe una cosa esecrabile.
La seconda è una parziale correzione della storia, ovvero del detto di De Coubertin e del senso che voleva dire.
Quel detto non è affatto farina del suo sacco: lo pronunciò per primo nella storia un filosofo greco che non avrebbe mai detto una cosa così scontata, perché quel filosofo disse in realtà:
“L’importante non è vincere, ma partecipare con spirito vincente”.
E credetemi, meglio di questa frase per spiegare tutto quello che volevo dire in queste righe, non potevo trovare.
In tutti i gruppi, sportivi o non, lavorativi o semplicemente con una finalita’ comune, anche “ solo” ricreativa, si manifestano delle dinamiche che portano alla comparsa e alla strutturazione di ruoli all’interno di essi.
Nel corso di questo articolo ci concentreremo su cio’ che avviene in un…
…gruppo squadra di pallacanestro, gruppo di professionisti con formazione, eta’, cultura ed esperienza diverse tra loro, in alcuni casi molto lontane.
Questi individui hanno la possibilita’ di realizzarsi in un gruppo solo se hanno un unico obiettivo comune:
il raggiungimento del miglior risultato sportivo di squadra possibile.
Il gruppo
Piu’ il gruppo e’ in grado di avere delle proprie qualita’, una propria “anima”, piu’ i risultati potranno essere superiori alla mera somma delle caratteristiche tecniche ed umane dei singoli membri.
Nella costruzione della squadra, in quello che probabilmente e’ il periodo dell’anno in cui devono essere fatti meno errori possibili (clicca qui) e’ necessario, direi imprescindibile, non sbagliare la scelta degli uomini in base alle loro capacita’ di fare gruppo.
E’ importante scegliere persone, ancora prima che giocatori, in grado di convivere in un gruppo con precise regole, porre il bene comune davanti al proprio, ma anche individuare quelli che possono ricoprire determinati ruoli all’interno di esso.
a determinarli e definirli, ma la mia esperienza mi porta ad affermare senza ombra di dubbio che non si puo’ prescindere dalla presenza di un leader.
Il gruppo ne ha bisogno, ne sente la presenza e l’importanza!
Come individuare un leader
A questo punto credo sia opportuno sottolineare come non sempre il leader è il giocatore piu’ bravo tecnicamente o il piu’ performante o quello che eccelle in qualche categoria statistica.
Non dobbiamo infatti confondere il leader tecnico da quello “morale”.
Il leader tecnico
Lo s’identifica con:
il tempo,
attraverso le situazioni di gioco,
quello a cui dare la palla nei momenti decisivi
a cui affidare l’ultimo tiro,
quello da mandare in lunetta per i tiri liberi piu’ importanti
il giocatore a cui assegnare l’avversario piu’ pericoloso.
E possono essere anche piu’ di uno.
Spesso si prova ad immaginarli nella costruzione della squadra, ma e’ soprattutto l’esperienza delle partite che ci permette di identificarli.
Ma questi sono presenti in tutte le squadre, a tutti i livelli, infatti, c’e’ qualche giocatore che emerge per caratteristiche rispetto agli altri, quelli a cui affidare il ruolo piu’ importante e decisivo.
Il leader morale
E’ il secondo tipo di leader, quello che ho definito “morale”.
Quello che:
trascina il gruppo nel lavoro quotidiano,
che e’ un esempio per il raggiungimento degli obiettivi di squadra,
è in grado di tenere tutti “sulla stessa pagina del libro” nei momenti difficili
che non sempre lo si trova nelle squadre.
Non necessariamente emerge nelle statistiche personali, spesso lo fa, ma in alcuni casi non e’ nemmeno tra quelli che giocano di piu’:
Aiuta i compagni piu’ in difficolta’,
magari riportando le proprie esperienze personali,
aiuta i giocatori ad inserirsi in un ambiente nuovo,
è colui che all’interno dello spogliatoio favorisce aggregazione
sa far rispettare le regole che devono valere per tutti!
Lo si capisce e lo si avverte anche sul campo, grazie al suo linguaggio del corpo, una pacca sulla spalla, un cinque, un incoraggiamento, ma anche alzando la voce quando è necessario.
Durante la settimana la sua presenza ha un peso specifico ancora maggiore.
Quando l’obiettivo è lontano (la partita) e’ fondamentale avere chi ci “ricorda” con:
l’esempio,
la concentrazione,
l’abnegazione
che solo il lavorare al 100% ti permette di arrivare pronto all’evento.
Alcune di queste caratteristiche le ritroviamo nella figura dell’allenatore.
In diversi casi si sente dire che il leader del gruppo e’ proprio il coach, che con la sua personalita’, le sue idee e la sua mentalita’ riesce a guidare il gruppo verso gli obiettivi prefissati.
Quanto c’e’ di vero in queste affermazioni?
Proviamo a dare una risposta.
Non c’e’ nessun dubbio che un gruppo di giocatori che non segue il proprio allenatore e’ destinato a fallire.
Un allenatore che non riesce a trasmettere le proprie idee tecniche e tattiche avra’ una capacita’ di intervenire sui propri giocatori pressoche’ nulla e sarà veramente difficile costruire un gruppo.
Molto probabilmente assisteremo in questo caso ad un insieme di singoli giocatori piuttosto che ad una vera e propria squadra.
Ancor di piu’ ritengo importante la capacita’ del coach di inculcare la propria mentalita’ alla squadra.
Il buon allenatore lo si vede esattamente in questa circostanza.
Indipendentemente dalla qualita’ del gioco, dalle scelte tattiche o se siamo in presenza di un allenatore da palestra o piu’ gestore del gruppo.
Quindi puo’ essere l’allenatore il leader del gruppo?
La mia personale risposta e’ no!
Ritengo che la nostra categoria debba essere in grado di indicare gli obiettivi da raggiungere e stabilire la strada per farlo, di decidere le regole a cui il gruppo deve attenersi e magari prevedere delle eccezioni e spiegarne i motivi.
Deve operare delle scelte, anche impopolari, tenendo sempre a mente l’obiettivo finale, salvaguardare l’esigenze comuni rispetto a quelle dei singoli, ma in posizione piu’ di capo che di leader del gruppo.
Deve, infatti, in tante occasioni uscire da esso ed operare come se non ne facesse parte.
Non ha gli stessi diritti dei giocatori, ed ha responsabilita’ diverse da essi, deve prendere decisioni (vi rimando all’articolo riguardo il lavoro di staff – clicca qui) e deve avere l’ultima parola in caso di divergenze di idee.
Conclusione
Non puo’ esserne il leader, ma deve essere capace di rappresentare una guida, in poche parole deve esserne il capo.
La combinazione perfetta e’ la presenza di un capo autorevole e di almeno un leader positivo dalla spiccata personalita’.
Se pensiamo alle grandi squadre e al raggiungimento di grandi obiettivi,
non possiamo prescindere dall’individuazione di queste due figure!!
Dopo la velocità, continuiamo il nostro viaggio trattando un’altra dote atletica necessaria per diventare un giocatore di basket quantomeno completo.
Un sistema per muoversi più liberamente con maggiore agilità e velocità è quello di sviluppare una buona elasticità.
Inoltre, la capacità di fornire…
…prestazioni senza timori di infortunio si risolve in azioni più poderose.
Cosa origina la potenza?
Il livello di estensione di una banda elastica stabilisce la quantità di energia immagazzinata e la possibilità di emissione di forza.
Per il muscolo non è l’estensione, ma piuttosto la velocità dell’allungamento che determina l’originarsi della potenza.
Quando però un muscolo è allungato fino ai suoi limiti estremi, l’essere in grado di resistere ai rigori di questo allungamento massimale ed eseguire un movimento di grande potenza senza infortunarsi è molto importante per una resistenza e produttività a lungo termine.
L’ampliamento della gamma di movimenti è un fattore molto importante per diventare un atleta completo.
L’importanza dell’agilità
Strettamente collegata con l’equilibrio, l’agilità è necessaria agli atleti per regolare gli spostamenti del centro di gravità mentre in velocità variano le posizioni del corpo.
Foto di Tima Miroshnichenko
L’agilità è la capacità di cambiare direzione senza diminuire la velocità.
Un esempio
Immaginiamo un uomo alto circa 2 metri, di 115 Kg, che può sollevare 180 Kg da seduto e 500 Kg in piedi, che ci sprinta in piena velocità davanti a noi e che improvvisamente devia a razzo verso destra o verso sinistra apparentemente senza diminuire il passo.
La maggior parte dei giocatori deve decelerare considerevolmente per assumere un po’ di controllo prima di un rapido cambio di direzione.
Ridurre la decelerazione è un fattore chiave per migliorare l’agilità.
La capacità di cambiare direzione rapidamente spiega in larga misura perché in atletica i saltatori possono balzare così in alto.
Il saltatore, in questo caso, stabilisce la sua velocità durante l’approccio al salto e poi trasferisce questa velocità orizzontale in sollevamento verticale nei due rapidi passi prima del punto di battuta.
Queste stesse caratteristiche possono essere inserite nei movimenti sul campo di basket.
Conclusione
Bisogna includere degli esercizi che richiedono veloci cambi di direzione nello schema quotidiano di allenamento:
con l’allenamento frequente a cambiare direzione con movimenti in avanti, indietro, laterali e verticali, si migliorerà l’agilità dell’atleta.
Prossimamaente tenteremo d’illustrare – presentare esercizi dediti al miglioramento di questa dote atletica con la speranza di avere uno scambio con i tanti lettori del nostro blog.
Un team di persone o, se vogliamo essere più precisi, di allenatori con dei ruoli stabiliti, che seguono delle regole, che hanno lo stesso obiettivo ultimo ma con competenze e conoscenze diverse.
Devono saper lavorare insieme, condividere e, come del resto i giocatori della propria squadra, anteporre le esigenze del gruppo a quelle personali.
analizzano le dinamiche di gruppo, aiutano i componenti ad esprimersi al meglio collaborando e condividendo
Possono crearsi dei piccoli sottogruppi con i propri coordinatori.
Se pensiamo alle organizzazioni più complesse, quelle delle NBA, lo staff tecnico è composto da decine di persone, ma in cima alla piramide c’è un solo capo ben definito: L’HEAD COACH, il capo allenatore.
Prima di quest’ultimo, che per me è un leader oltre che il capo di uno staff, partirei dagli altri componenti per condividervi le mie personali idee riguardo i ruoli e le competenze.
Ha la responsabilità, in pre-season, di far raggiungere la condizione fisica necessaria ad affrontare l’inizio del campionato, durante la stagione di conservarla per poi arrivare nella migliore situazione possibile alla fine del campionato.
É un lavoro complesso, che vive di diversi momenti lungo la stagione, alcuni richiederanno specifici lavori con carichi ed obiettivi mirati, altri saranno dedicati al recupero di eventuali infortunati e a ltri, ancora, saranno momenti di supporto e di sostegno emotivo.
Non è raro, infatti, che il preparatore sia colui al quale vengono richiesti consigli anche al di fuori del basket giocato, pensando anche che il corpo, il target del proprio lavoro, è una componente che va sempre allenata, anche lontano dal campo.
Nel basket attuale il preparatore lavora sempre più in sinergia ed in simbiosi con la parte tecnica.
Ogni programmazione, sia essa stagionale, mensile, settimanale o quotidiana, deve essere il risultato dell’interazione tra le due parti.
L’assistente allenatore
E’ una figura che, anche se alcune volte lavora lontano dai riflettori, nel basket moderno ha visto ampliare sempre di più le proprie mansioni, non soltanto sul campo di basket, ma anche dietro la scrivania.
In uno staff ve ne sono diversi, e spesso con ruoli specifici.
Infatti ci sono quelli con capacità di analizzare e produrre stats e video certificando così l’importanza delle voci statistiche.
In pratica:
peso ai numeri, non solo nella lettura delle partite e dei risultati, ma anche nella costruzione delle squadre e nella preparazione delle partite da affrontare.
Il basket è uno sport aperto alle contaminazioni e alle evoluzioni:
ha assimilato dal baseball l’importanza dei numeri
dal football, sport estremamente tattico e con alcuni aspetti tecnici in comune con la pallacanestro, si è adottata, invece, la specializzazione tra gli assistenti allenatori all’interno dello staff.
E’ sempre più comune, anche in società meno strutturate di quelle della NBA, trovare allenatori responsabili delle scelte difensive o di quelle offensive, nonché coordinatori del lavoro individuale (player development coach).
Questi assistenti hanno un contatto molto diretto con i giocatori, è necessario che si manifestino nei confronti di essi come dei capo allenatori a tutti gli effetti e devono essere riconosciuti dai giocatori come tali.
Obiettivi comuni
In soldoni non deve mai instaurarsi nella mente degli atleti la convinzione di avere di fronte un allenatore meno “valido” o meno importante del head coach.
Senza invadere le competenze né prevaricare i ruoli, ritengo che uno staff tecnico sia molto più forte e credibile quando si mostra alla squadra senza differenze di valori, quando parla un assistente è come se parlasse il capo allenatore!
L’assistente non deve, però, “solo” proporre soluzioni tecnico-tattiche ai problemi che si manifestano, ma, a mio parere, in alcuni determinati momenti,
deve anche favorire delle riflessioni, provocare cioè dei dubbi al capo allenatore.
Deve, quindi, alimentare e stimolare un confronto sulle idee dal quale deve uscire una sintesi che poi renda più forte le convinzioni e le scelte adottate.
È fondamentale non sbagliare i momenti.
Il capo allenatore è colui che decide, che si assume le responsabilità e le proposte o le considerazioni devono essere fatte prima della sua scelta, dopo di essa tutti devono lavorare nella stessa direzione affinché la resa sia la massima possibile.
Alla squadra va trasferita un’idea unica, consolidata e motivata!
Un aspetto del lavoro degli assistenti, in particolare di quelli più vicini al capo allenatore, che è meno tangibile e a volte sottovalutato, è il saper fare da connettori tra la squadra e il coach.
É un compito molto delicato, invece, che in alcune circostanze si manifesta attraverso il rafforzare i messaggi, sia tecnici che motivazionali, dell’allenatore nei confronti degli atleti, in altre raccogliendo i vari feedback proveniente dalla squadra.
Ed è qui che vorrei sottolineare come l’assistente debba anche avere la sensibilità per analizzare ciò che gli viene detto e filtrare i messaggi per l’head coach…
NON DEVE ESSERE UNA SPIA, NE’ DEVE ESSERE UN CONFIDENTE.
Deve capire ciò che è funzionale al raggiungimento dell’obiettivo comune, deve prevenire possibili problemi, risolverne altri.
L’Head Coach
E’ indubbiamente il capo dello staff.
Viene chiesto di:
prendere le decisioni e la responsabilità della gestione della squadra
coordinare il lavoro dei vari allenatori
come abbiamo visto non solo tecnico
deve dare una linea e stabilire un metodo di lavoro a cui tutti devono adeguarsi.
Ritengo, però, che debba essere anche il LEADER della squadra, colui che non solo stabilisca le regole, ma che sia il punto di riferimento, non sia al di fuori del gruppo, ma parte integrante ed esempio per lo stesso!
Non deve necessariamente avere più conoscenze degli altri membri dello staff (pensiamo ad esempio, ma non solo, nei confronti del preparatore o del mental coach), ma deve avere una visione che sia Il 100% di ciò di cui ha bisogno la squadra.
Non può permettersi di non essere focalizzato sull’obiettivo comune, anzi deve avere la capacità di riportare eventualmente tutti sulla stessa “pagina del libro”.
Una dote importante è, per me, la sensibilità nel capire come e in che modo far rendere al meglio le risorse che ha a disposizione; le risorse non sono, ovviamente, solo i giocatori, ma anche i propri assistenti.
Come abbiamo detto in precedenza, essi hanno competenze e capacità diverse, fondamentale è metterli nelle migliori condizioni possibili per aumentarne l’efficienza.
Conclusioni
In ottica dell’obiettivo comune:
l’head coach potrebbe, per esempio, lasciare al proprio assistente la conduzione dell’allenamento settimanale o solo di alcune parti di esso.
La domanda
Potrebbe essere visto come un passo in dietro da parte del capo allenatore?
E’ un ottimizzare il lavoro e trasmettere alla squadra uno staff unito e completamente immerso nel raggiungere l’obiettivo.
Da leader deve sapere che uno staff coinvolto e contento del proprio ruolo è in grado di dare quel qualcosa in più che, in un lavoro dove ogni settimana c’è un confronto tra uomini prima che atleti e tecnici, può fare veramente la differenza.
Parlando della pallacanestro di area FIBA si possano individuare alcuni turning points, ovvero alcuni cambiamenti regolamentari che hanno notevolmente cambiato il GIOCO.
La conseguenza è che ne sono state modificati gli approcci tecnici e tattici delle varie squadre e giocatori, nonché le strategie nella costruzione delle squadre.
Vediamo…
…quali sono, a mio avviso, quelli più determinanti.
Le modifiche nel tempo
1984 introduzione del tiro da 3 punti;
2004 il passaggio per i campionati FIBA dalla regola dei 30 secondi a quella dei 24 secondi.
Infatti, mentre in NBA, dopo un primo periodo in cui non vi erano limiti di tempo per concludere un’azione di attacco, nella stagione 1954/55 si decise immediatamente per i 24 secondi.
Nei paesi Europei, ma più in generale in quelli di area FIBA, ci fu prima il limite dei 30 secondi per poi adeguarsi alla regola NBA;
2010 arretramento linea dei tre punti alla distanza di 6,75 mt e modifica delle dimensioni dell’area dei 3 secondi;
2014 reset del cronometro a 14 secondi dopo un rimbalzo offensivo;
2018 l’introduzione del concetto “passo zero”
ovvero la possibilità di compiere, in determinate circostanze, un passo senza mettere la palla a terra che non rientri nel conto per il fischio della violazione di passi.
Tralasciando per ora, ne parleremo magari nei prossimi articoli, i significativi effetti degli altri cambiamenti regolamentari (alla lista precedente aggiungerei anche l’introduzione dello “SMILE”).
Le conseguenze del cambiamento del limite di tempo
In queste righe vorrei sottolineare come il cambiamento del limite di tempo per l’azione offensiva abbia influenzato a tal punto la pallacanestro “moderna” da pensare ad un vero e proprio spartiacque!
Le conseguenze sono state diverse e di grande impatto.
Parto proprio da quest’ultimo aspetto per condividere con voi alcune mie riflessioni.
La mia passione per questo sport è nata ben prima del 2004, quando le squadre erano composte da un quintetto base ben definito ed una panchina in cui era facile identificare il sesto uomo.
Quest’ultimo poteva tranquillamente far parte dello starting five, ma uscendo dal “pino” aveva un impatto sulla partita ancora maggiore tale da cambiarla.
Foto di cottonbro
Il resto dei panchinari (il roster era di 10 giocatori) era soprattuto giocatori di ruolo (Role Player) con compiti ben specifici, spesso con mansioni chiaramente difensive, con l’obiettivo di far rifiatare il titolare e di supporto anche morale per i primi cinque.
In seguito l’evoluzione della pallacanestro ha influenzato la costruzione del roster.
Con la riduzione di ben 6 secondi per concludere un attacco, si è visto notevolmente velocizzare il gioco con una diminuzione dei tempi di esecuzione sia fisici che mentali, tale da richiedere sforzi più intensi con conseguenti riposi brevi ma più frequenti.
Ecco la necessità di avere 12 giocatori, ma soprattutto aumentare le cosiddette rotazioni e avere un maggior apporto dai giocatori definiti rincalzi.
Nasce anche una vera e propria nuova definizione, quella di “SECOND UNIT”, cioè quintetti che iniziano la partita subentrando, ma che hanno la possibilità di giocare diversi minuti e quindi essere determinanti.
Ovviamente parte tutto da un concetto di tempo ridotto, ma non è solo una questione fisica:
non invadendo competenze altrui, non credo di essere smentito dicendo che i lavori di endurance in pres-season sono stati sempre di più sostituiti da lavori più intensi e anaerobici e da una maggiore attenzione allo sviluppo della resistenza veloce.
Infatti essendo uno sport di situazioni, l’aspetto tecnico ha risentito in maniera importante di questo cambiamento.
Analizziamo più nel dettaglio alcuni effetti
COSTRUZIONE GIOCATORI
In giro per i campi europei, a tutti i livelli, si vedono sempre più dei veri atleti.
Giocatori che potrebbero competere in qualsiasi disciplina di atletica leggera per le loro capacità anche purtroppo a scapito di una tecnica e una conoscenza dei fondamentali non precisa.
Questo è il vero obiettivo dei nostri settori giovanili, ovvero formare giocatori che sappiano abbinare a doti fisiche e atletiche di primo livello una tecnica altrettanto eccellente.
Come?
Prima insegnando in maniera precisa il gesto, aumentando solo in seguito la velocità di esecuzione e di pensiero!
Sì di pensiero, perché il tempo per leggere la situazione e prendere una decisione si è notevolmente accorciato!
E’ fondamentale avere una tecnica che ci permetta di avere un rilascio della palla efficace ed efficiente, con la palla che esce dalle mani con la giusta rotazione e parabola, con la corretta coordinazione piedi, gambe, braccia e mani.
Ciò è possibile con ripetizioni e una metodologia di allenamento che gli allenatori ben conoscono.
E’ necessario, però, che, una volta acquisita la tecnica, essa venga eseguita in tempi rapidissimi.
Quanto tempo ha il giocatore per eseguire un tiro prima di essere ostacolato?
E quanto per mettere i piedi “a posto”?
Quanti tiri sono effettivamente liberi o senza la pressione del difensore?
Quanto tempo ha per decidere il tipo di tiro da effettuare in relazione alla situazione di gioco?
Pochissimo, sicuramente molto meno di quanto ne aveva con i 30 secondi a disposizione per concludere l’azione d’attacco.
Sicuramente ha meno libertà di movimento dovendo affrontare difese più atletiche che riempiono gli spazi molto più velocemente. (Basti pensare ai “CLOSE OUT”).
GIOCHI OFFENSIVI
Prima della variazione regolamentare era norma sviluppare giochi d’attacco nei cui primi secondi c’era soprattutto un movimento di palla non sempre accompagnato da quello dei giocatori, o comunque non tale da creare un vantaggio immediato da poter sfruttare andando a canestro o concludendo.
Il vero pericolo per le difese infatti arrivava negli ultimi secondi dell’azione
“la difesa deve lavorare il più tempo possibile”
Con i 24 secondi c’è stato uno sviluppo di set offensivi che dai primissimi istanti dell’azione permettono di mettere sotto pressione la difesa (concretizzare i vantaggi).
Alcuni consentono di raggiungere una conclusione dopo un solo passaggio e un movimento di un solo giocatore (si vedono sempre più isolamenti), altri hanno obiettivi chiari ed immediati che coinvolgono non tutti gli attaccanti (pensiamo a come nascono diversi pick&roll centrali).
Così come, (per necessità o per “pigrizia” di noi allenatori?), non è inusuale avere diverse chiamate dello stesso gioco a secondo del giocatore che vogliamo coinvolgere limitando, così, al minimo il tempo di esecuzione, ma anche la capacità di scelta dei nostri atleti.
Scelte che potrebbero rallentare l’esecuzione del gioco, con la conseguenza in questo caso, personale considerazione, di un impoverimento della qualità dell’attacco e del giocatore stesso.
Con un attacco pericoloso già nei primi secondi, con una ricerca sempre maggiore di attaccare in contropiede, attraverso anche transizioni offensive sempre più efficaci, è fondamentale avere giocatori in grado di passare da una fase all’altra immediatamente.
Da qui l’attenzione per le transizioni difensive e per costruire una mentalità difensiva che non sia passiva, ma anzi permetta di aggredire l’attacco nei primissimi metri del campo (con difese tutto campo, raddoppi, blitz sulla palla…)
In particolare le qualità atletiche di ormai tutti i giocatori, indipendentemente dai ruoli, e i meno secondi a disposizione dell’attacco, permettono di utilizzare cambi difensivi anche tra diversi ruoli.
Molto efficaci per spezzare il flusso in attacco e costringerlo a soluzioni rapide e meno efficaci, condizionato anche dalla SHOT CLOCK VIOLATION.
Le cosiddette SPECIAL PLAYS
Per le scelte difensive dette in precedenze, ma anche per gli ulteriori cambiamenti regolamentari (pensiamo il reset ai 14 secondi), non possono mancare nel playbook delle varie squadre quelle situazioni a gioco rotto o quelle rimesse, sia laterali che da fondo, per la ricerca di una conclusione veloce.
Ciò ha permesso una notevole specializzazione per queste chiamate “speciali”.
Conslusione
Il basket per sua natura e per come è stato ideato, è sempre incline ai cambiamenti, avvicinandosi a quelle che sono le richieste di modernità.
Si può tranquillamente affermare che sia uno sport “progressista”.
Così come lo devono essere tutti i suoi attori protagonisti, pronti ad adeguare la propria metodologia di lavoro, come abbiamo visto, sia dal punto di vista atletico che tecnico (non tralasciando il lavoro degli arbitri, a cui è richiesto di adattarsi ad un gioco più veloce e con più contatti).
In particolare con l’introduzione dei 24 secondi, il gioco ne ha sicuramente guadagnato in spettacolarità.
da Ufficio Stampa FIP prima partita in Italia di pallacanestro (8 giugno 1919)
Sicuramente risulta essere più moderno e fruibile per un pubblico sempre più alla ricerca della giocata spettacolare e poco amante dei tempi morti.
Possiamo senza dubbio riconoscere e affermare che esista una pallacanestro ante e una post 2004.
Uno dei più classici oggetti che fanno parte della vita di un allenatore e che lo accompagna non solo la domenica, è il taccuino.
Sul taccuino l’allenatore ci scrive DI TUTTO.
Non si può fidare della sua sola memoria, e allora il taccuino serve a raccogliere ogni tipo di informazione che gli servirà a definire meglio il suo lavoro quotidiano e i suoi obiettivi.
Su quei taccuini si sono…
…vinte più partite di molte faticose sedute di allenamento e in quelle pagine non ci sono soltanto schemi ed esercizi.
Ci sono anche frasi e annotazioni che aiutano il coach a focalizzare meglio i suoi obiettivi.
Gli sbagli
Nei lunghi decenni in cui ho avuto la fortuna di allenare, trascrivevo ogni anno alla prima pagina di ogni nuovo taccuino la seguente frase, mutuata da un sillogismo aristotelico:
Allenare è scegliere. Scegliere è escludere. Escludere è sbagliare = Allenare è sbagliare.
Questo monito serviva a ricordarmi, ogni giorno della mia carriera, che un allenatore è, prima di tutto, quello che sbaglierà più di tutti.
La ragione di questo è molto semplice.
Foto di Nathan Cowley
Il basket è lo sport in cui per eccellenza un allenatore opera delle scelte continuativamente:
mentre qui possiamo, sì e no, limitarci a dare dei piccoli input, soggettivi e limitati alla sola esperienza di chi scrive.
Le gerarchie
La dinamica insita nelle scelte di chi far giocare prima, chi dopo, e chi solo se scende la Madonna, la definizione di chi giocherà i minuti decisivi, sono decisioni connesse ad un altro sacramento non scritto che vige nello sport in generale e in particolare nel basket:
la presenza di gerarchie indispensabili.
Ogni squadra ha la sua intrinseca chimica dei fattori interni, nella quale si può intravedere chiaramente un mix tra giocatori di esperienza, giocatori di media affidabilità, la presenza di una o più star, e giovani.
Questo mix definisce le dinamiche di una squadra e la àncora ad un principio gerarchico che è necessario conoscere, definire e condividere.
Qui pure si aprirebbe un capitolo che si trova a metà strada tra la chimica e le dinamiche di gruppo.
La chiarezza
È altamente raccomandabile che l’allenatore chiarisca preliminarmente alla squadra il criterio gerarchico da lui individuato per risolvere immediatamente la prima e più importante minaccia a cui il gruppo è sottoposto:
non creare false aspettative e quindi ingenerare un processo di delusioni/demotivazioni.
Ciascun giocatore deve sapere esattamente il suo peso all’interno della squadra: “l’accettazione di quel ruolo (non in senso tecnico ma come rilevanza) definirà il grado di compattezza di tutto l’assieme”.
Foto di Gustavo Linhares
Se sono un giocatore importante devo sapere che la squadra, l’allenatore e i compagni, si aspettano da me:
che giochi un certo minutaggio
che mi assuma determinate responsabilità
che porti sulle mie spalle un certo peso sul buon andamento della partita
e che sia pronto a farmi pienamente carico di tutto questo.
Se sono un giocatore giovane, arrivato per fare esperienza, devo sapere:
di non aspettarmi grandi minutaggi
che dovrò faticare per conquistare la fiducia di tutti
che devo aiutare gli altri ad allenarsi bene
tutto quello che verrà di più sarà guadagnato.
Il motivo della gerarchia
Dentro queste gerarchie si suddividono proporzionalmente anche le percentuali di merito/demerito che vanno redistribuite di pari passo con i successi o gli insuccessi della squadra.
La pallacanestro da questo punto di vista raramente ha commesso errori nell’attribuzione esatta delle responsabilità, nel fermo convincimento che è poi tutta la squadra a far fronte comune davanti ai successi o agli insuccessi.
La definizione delle gerarchie aiuta l’allenatore anche a compiere le scelte migliori nei famosi frangenti decisivi delle partite.
Se devo scegliere a chi affidare la conclusione che mi farà andare in paradiso o all’inferno, credo sia difficile che quella conclusione possa metterla nelle mani di un giovane con poca esperienza:
verosimilmente mi affiderò alle mani di chi quelle situazioni le ha già vissute molte volte.
Questo è quello che capita nella stragrande maggioranza delle squadre.
L’eccezione che conferma la regola
Poi un giorno, un allenatore di Caserta che allena la squadra della sua città, arriva a giocarsi una finale scudetto in trasferta a Milano, e sul time out della quinta e decisiva partita, a meno di due minuti dal termine della gara che avrebbe assegnato l’unico scudetto della storia ad una squadra del Sud, si avvicina non al giocatore esperto, ma ad un ragazzo poco più che ventenne e gli chiede:
Nell’articolo precedente ho trattato quella parte del lavoro di noi allenatori che riguarda la diffusione e la condivisione dei giochi avversari, le varie modalità in cui avvengono, gli obiettivi che ci prefiggiamo di ottenere e la collocazione temporale all’interno di una settimana lavorativa.
Come detto più volte, proposte molto soggettive.
In questo nuovo contributo vorrei porre l’attenzione, invece, sull’importanza che assumono le caratteristiche individuali dei giocatori avversari.
Individual skills / Stats
Buona parte, infatti, delle informazioni degli avversari che lo staff tecnico trasmette alla propria squadra, riguardano le cosiddette individual skills accompagnate dalle “stats”.
Le prime rappresentano non solo ciò che il giocatore “sa fare”:
quindi i suoi pregi e i suoi difetti dal punto di vista tecnico;
il suo ruolo tattico
“ma anche”:
ciò che egli rappresenta per la propria squadra;
se è un punto di riferimento in attacco o in difesa;
Ovviamente la visione delle partite è altrettanto importante come quando bisogna redigere il playbook della squadra avversaria ed è facilmente intuibile che, in questo caso, il numero delle partite visionate è di fondamentale importanza.
Poche potrebbero dare false indicazioni (fake news), mentre un numero adeguato ci permette di avere maggiore certezza nello scegliere cosa condividere con i propri atleti dei futuri avversari.
Spesso gioca un aspetto fondamentale la conoscenza diretta del giocatore e, se non è possibile riscontrarla all’interno dello staff, ecco che ritornano d’aiuto le telefonate fatte, magari, in passato con altri colleghi che ci permettono di aggiungere anche delle note caratteriali al profilo dell’avversario.
Le seconde, ovvero le statistiche, nel basket moderno acquistano anno dopo anno, stagione dopo stagione, sempre più rilevanza.
Esse sono, non solo di supporto al giudizio circa l’efficacia, ma, grazie ai dati numerosi ed approfonditi che siamo mi grado di ricavare dai vari siti specializzati, anche indicative circa le abitudini dei singoli giocatori.
Esempio
oggi di un avversario possiamo sapere, con un’elevata accuratezza:
quante volte attacca il ferro con la mano destra;
quante con la sinistra;
in che percentuale utilizza quel tipo di conclusione
se è in uscita dal lato destro piuttosto che sinistro
cosa fa dopo un blocco
cosa preferisce fare negli ultimi secondi dell’azione e così via!
Tutto merito della famosa arte di scoutizzare una partita.
Vi sono colleghi all’interno degli staff tecnici che si sono specializzati in questo compito.
Il report
Ritorniamo ora al materiale che si sceglie di condividere con la propria squadra.
Come per i giochi avversari, non c’è una regola valida per tutti e per tutte le situazioni.
Ogni staff ha le sue regole e abitudini, riporto le mie.
Nell’organizzare le informazioni da trasmettere alla squadra parto da una quasi certezza:
la prima voce del report che i giocatori vanno a guardare sono le stats degli avversari, in particolare dei giocatori che immaginano di dover marcare!
Ed è questo il motivo per cui è fondamentale la scelta e la modalità dei “numeri” che si propongono.
Essi devono essere di supporto e non dare cattive indicazioni, meglio non fornirli se non siamo sicuri di ciò che evidenziamo!
Dobbiamo avere chiaro in mente il messaggio che vogliamo condividere e l’obiettivo che vogliamo raggiungere.
Inutile sottolineare le buone percentuali di un giocatore da tre punti
se i suoi tentativi non sono significativi
Al contrario, è un errore non mettere in guardia sulla pericolosità di un tiratore che in carriera ha avuto sempre alte percentuali
magari meno fino a quel punto della stagione e quindi riportare anche i dati delle altre annate oltre a quella attuale.
Il sapere quali sono le soluzioni più efficaci a seguito di un preciso movimento o di uno schema, hanno più valenza di una “fredda” media aritmetica.
Il tutto deve essere coerente con le indicazioni che diamo per presentare le caratteristiche di un giocatore avversario e con le immagini che nelle varie riunioni presentiamo alla squadra.
non credo sia un messaggio chiaro riportare clip in cui un giocatore mostra una skill che statisticamente non è un dato significativo.
Organizzazione del report
Le indicazioni scritte preferisco siano dei flash, molto sintetiche, in stile linguaggio sms, devono catturare l’attenzione di una generazione abituata a vedere video più che leggere.
Le clips devono essere mirate, di ogni singolo giocatore.
Devono:
mostrare le caratteristiche principali, legate alle statistiche;
più brevi possibile
giusto il tempo d’ individuare il giocatore e di capire in che contesto tecnico e tattico si sviluppano;
mostrare anche i punti deboli
che messaggio diamo alla squadra se mostriamo solo canestri di un avversario?!.
Influenza della categoria del campionato
In un campionato di medio livello troveremo giocatori con qualità e difetti ben riconoscibili su cui speculare e dove la conoscenza specifica di ogni avversario può veramente fare la differenza e indirizzare il risultato di una partita.
Diverso il discorso quando il livello sale.
In questo caso dovremo confrontarci con giocatori dal talento elevato con un bagaglio tecnico importante e completo, magari roster molto lunghi e con infinite possibilità.
Nel primo caso credo che il tempo da dedicare al trasferimento delle informazioni individuali debba coprire una fetta importante del lavoro di uno staff.
Credo sia importante coinvolgere i singoli giocatori informandoli il prima possibile dei propri diretti avversari, farlo nei primissimi giorni della settimana dedicati alla squadra avversaria, anche prima dei riferimenti agli schemi.
Nel secondo caso, invece, si parla di limitare la pericolosità di un avversario, magari necessita di un lavoro di squadra piuttosto che singolo, non si parlerà più di speculare sui difetti, ma bensì di accorgimenti tattici, di una difesa di squadra e quindi di collaborazioni.
Foto di Wallace Chuck
É opportuno, quindi, informare e coinvolgere tutta la squadra, operare delle scelte di cui siano consapevoli tutti i giocatori dedicandovi del tempo sul campo importante.
Conclusione
In ogni caso, alla base di qualsiasi ragionamento e programmazione, non bisogna mai dimenticare che la pallacanestro è un Gioco di squadra, per il sottoscritto la più alta espressione.
Non si vincerà o perderà mai per un solo giocatore, ma ricordare, invece, che il valore di un gruppo coeso è sempre superiore alla somma dei valori dei singoli giocatori.
L’argomento che il nostro coach, Sergio Luise, tratterà fa parte di un aspetto del lavoro di allenatore professionista che meriterebbe diversi approfondimenti, ognuno dei quali potrebbe essere il principale tema di successivi articoli.
“Si potrebbe, infatti, riflettere sull’effettiva funzionalità di trasmettere ai giocatori i report tecnici della squadra avversaria, cosa trasmettere, quando trasmettere e ovviamente come trasmetterli”.
La mia opinione
A volte si attribuisce troppa importanza, da parte di noi allenatori, alla condivisione con i giocatori di ciò che fanno gli altri.
Già nell’organizzazione della settimana durante la pre-season diverso spazio viene riservato a quelle che noi chiamiamo riunioni tecniche, ovvero, lo sharing di clips, prontamente realizzate dallo staff, alla squadra.
Sono proprio quest’ultime che permettono ai propri giocatori di conoscere il più possibile degli avversari, sia dal punto di vista tecnico che tattico.
Ogni stagione, nel programmare il lavoro settimanale, mi faccio alcune domande:
cosa facciamo vedere alla nostra squadra degli avversari?
In che momento della settimana?
Quanto tempo dedicare a cosa fanno gli altri?
Cosa voglio che memorizzino da utilizzare durante una partita?
Non si hanno risposte univoche
Dipende dal tipo di roster che si ha a disposizione;
Dal livello di conoscenza della pallacanestro dei propri giocatori
(magari una squadra esperta riconosce più facilmente le situazioni di gioco);
dal vissuto insieme della propria squadra
(una squadra nuova ha probabilmente più bisogno di lavorare sulle proprie situazioni).
Ci sarebbe, appunto, da scrivere diversi articoli per esprimere meglio i vari punti di vista!
Idea su come agevolare la memorizzazione delle situazioni di gioco d’attacco della squadra avversaria.
Il grosso del lavoro è ovviamente svolto dallo staff nei giorni precedenti, spesso anche nella settimana precedente, rispetto al momento in cui si decide di esporlo alla squadra.
Dopo aver analizzato diverse partite, si esegue lo scout dei giochi degli avversari, si opera dello screening e si decide cosa proporre.
Normalmente è la seconda parte della settimana il momento in cui vengono trasferite le informazioni, anche se personalmente, preferisco, dalle primissime ore di allenamento, estrapolare un paio di situazioni di attacco degli avversari e lavorarci su
(in questa fase parliamo di lavori a secco, arrivando al massimo al 2 vs 2, senza specificare le chiamate o l’intera esecuzione del gioco!).
Entriamo, ora, nel vivo del trasferimento delle informazioni ai giocatori
Ogni allenatore, ogni staff tecnico, ha un suo modus operandi, per me, come dicevo prima, molto dipende anche dal tipo di squadra che si sta allenando.
Primo momento
Preferisco, a metà settimana, lavorare in maniera analitica (non oltre il 4 vs 4) “spezzettando” i giochi avversari e focalizzando l’attenzione dei miei giocatori solo sul movimento:
Pick & roll – May 3, 2015; Oakland, CA, USA; Golden State Warriors forward Draymond Green (23) sets a screen on Memphis Grizzlies forward Tony Allen (9) as guard Klay Thompson (11) dribbles the ball during the first quarter in game one of the second round of the NBA Playoffs at Oracle Arena. Mandatory Credit: Cary Edmondson-USA TODAY Sports
mostrando loro come si arriva alla situazione tattica.
Mi piace, se le condizioni lo permettono, mostrare con le clips quello che poi andremo a proporre sul campo.
Non chiedo loro di memorizzare la chiamata, né tutta l’esecuzione, ma chiedo la massima attenzione sulle nostre scelte tattiche riguardo all’obiettivo del gioco.
Se voglio fare più riunioni video alla settimana, preferisco siano molto brevi, obiettivo memoria visiva!
Secondo momento
Avvicinandoci al giorno della partita mostreremo loro i giochi scelti in maniera completa, tutta la loro esecuzione e il loro sviluppo.
La riunione sarà più lunga, può anche presentare giochi non provati precedentemente, enfatizzando però sempre l’obiettivo del movimento offensivo.
Tutti i giocatori proveranno attacco e difesa, mostrando le varie opzioni del set offensivo.
Rinforzeremo le nostre scelte anche facendo riferimento alle caratteristiche individuali degli avversari, dando gli accoppiamenti.
In questo caso si chiederà al giocatore di memorizzare anche la chiamata.
Di quanti giochi?
Avendo lavorato molto per obiettivi durante la settimana non voglio siano troppe le chiamate da ricordare,
preferisco un maggior sforzo circa il riconoscere la situazione di attacco e quindi operare la scelta difensiva allenata!
In ogni caso, dalla prima riunione incentrata sui giochi avversari, si fornisce anche del materiale in cui vengono disegnati i movimenti avversari, oltre a ritrovarli nello spogliatoio affissi nelle varie bacheche.
Conclusione
All’inizio della mia carriera l’unico metodo era distribuire del materiale cartaceo, dove oltre i disegni vi erano anche spiegazioni circa le varie scelte.
Ora si utilizzano applicazioni, software, che permettono lo sharing dei montaggi video (lavoriamo sempre di più con giovani abituati più a vedere che a leggere.. è fondamentale adeguarsi!).
Questa è solo una proposta di lavoro.
Proposta da modellare sulle qualità degli avversari e soprattutto sulle capacità della propria squadra, ma mi piacerebbe, invero,
Foto di Amine M’Siouri
suscitare delle riflessioni su quanto sia utile il mostrare ciò che fanno gli altri, su quale aspetto tecnico/tattico mettere maggior attenzione (magari più spazio alle caratteristiche individuali?!) e su quanto tempo della nostra settimana dedicargli.
Hai presente il primo allenamento della settimana dopo che la domenica hai perso una partita?
Osserva bene i giocatori quando entrano in palestra.
Ciascuno ha la sua reazione, questo è chiaro. Ma se stai attento ai loro sguardi, potrai notare una di queste due reazioni:
La prima è di frustrazione, questo atteggiamento riguarda quelli che magari avevano un certo grado di aspettative sulla partita.
Il loro sguardo è basso, il morale pure, sembrano cani bastonati.
La seconda reazione è di rabbia, e riguarda la maggior parte.
Non vedono l’ora che si giochi di nuovo, perché hanno dentro di loro il sacro fuoco della vendetta (sportiva, s’intende), e desiderano dimostrare che la sconfitta della domenica precedente era solo un episodio e vogliono riscattarsi.
Il significato della sconfitta sta tutto dentro questa parola: riscatto.
Riscatto è un termine che ha a che fare direttamente con la motivazione, ovvero quella cosa che, da sola, è in grado di spostare montagne. Non c’è spinta più forte di questa, per migliorarsi.
Riscatto è una parola di fuoco. Contiene ogni elemento che è in grado di spingere i propri sforzi ad un livello inimmaginabile di prestazione.
Se un giocatore potesse attingere a questa forza anche dopo aver vinto, beh, nel mondo ci sarebbero tanti Kobe Bryant.
E invece di gente così ne nasce una ogni cinquant’anni.
E qui entriamo nella parte opposta del discorso:
gli atteggiamenti inconsci determinati da una vittoria.
È rarissimo che un giocatore che abbia vinto una o più partite di fila, abbia quella rabbia agonistica, quella giusta energia mentale (è di questo che stiamo parlando se non si è ancora capito) per affrontare la preparazione settimanale con lo spirito di chi chiede a sé stesso di arrivare sempre un passo avanti.
Certo, dirai, la vittoria ti regala una cosa impagabile, che consiste in quella sicurezza, quella freddezza e quella confidenza che danno maggiore fiducia nei propri mezzi, e che forse, se hai accumulato “self confidence”, quando la partita si fa decisiva, forse avrai anche un piccolo vantaggio nei confronti di chi, suo malgrado, ha più paura di rivedere il mostro, di chi teme che dentro quel baratro si possa sprofondare, una volta ancora.
Altro sport con una spiccata connotazione mentale.
Non ho le statistiche aggiornate, ma giurerei che, in un match con valori che sono pressappoco equivalenti da un punto di vista tecnico, il giocatore che vince il primo set, il 50% delle volte perde il secondo, e la ragione sta sempre dentro quelle due paroline magiche: motivazione e senso di riscatto.
Il giocatore che ha appena portato a casa la prima partita subisce un inconscio calo di tensione, una specie di impulsivo appagamento, mentre il giocatore che ha perso il primo set è costretto a raddoppiare gli sforzi per restare in partita.
Unisci magicamente questi elementi e il gioco è bello che fatto.
Uno a uno e palla a centro.
Non so se esiste una ricetta per evitare cali di tensione in caso di vittoria né per escludere quel senso di insicurezza che deriva da una sconfitta.
So però di sicuro che la sconfitta aiuta, eccome, a ripartire meglio, a farsi più domande, a indagare meglio sulla preparazione, a mettere in campo più energie, più attenzione per evitare il ripetersi di questo evento.
E tutto questo porta ad un innalzamento della preparazione finalizzata alla performance che coinvolge tutti: giocatori, staff, società.
Uno dei possibili rimedi sarebbe riuscire ad azzerare ogni contraccolpo psicologico derivante dal risultato e concentrarsi invece solo sulla prestazione.
Questa è l’unica àncora di salvezza per restare concentrati sul mezzo (allenarsi al meglio) e non sul fine (risultato). Ma è obiettivamente una cosa assai difficile da fare, per il cervello.
Non a caso, nel periodo in cui ho avuto il piacere di allenare, ripetevo spesso
“che una squadra vincente è quella che si allena sempre con lo spirito di una squadra che ha perso“.
Ma dentro di me sapevo che dei semplici concetti non si tramutano in azione per il solo fatto di enunciarli.
In questi giorni ci stiamo beando delle immagini che provengono da oltre oceano, fortunatamente la NBA e la WNBA sono riprese e ci stanno fornendo milioni di spunti oltre alla visione di partite spettacolari nonostante la mancanza degli spettatori, che in arene come quelle americane sicuramente rappresentano un valore aggiunto.
Prendo spunto…
non dalle clips spettacolari di LeBron o di Doncic e via dicendo ma da due rimesse che avevano una esecuzione simile ma che non sono andate entrambe a buon fine.
Stesse rimesse laterali, con lo stesso scopo, quello di liberare il tiratore vicino il lato della rimessa ed, in ultima ipotesi, avere la forza e la capacità di vedere l’uomo che era libero vicino la linea laterale opposta.
I Raptors riescono nel capolavoro, il passatore riesce a vedere l’uomo libero dal lato opposto, che a 5 decimi di secondo tira e segna da 3 punti ribaltando il risultato.
Se ci soffermiamo su questa situazione ci possono essere tantissime cosa da sottolineare, un milioni di particolari, ma mi fermo al “semplice” gesto del passaggio da una linea laterale all’altra, tralasciando l’aspetto che chi ha tirato lo ha fatto in 5 decimi di secondo!!!
Quel passaggio racchiude: gesto tecnico, forza e lettura mentre i compagni si muovevano.
E’ ovvio che chi è un giocatore della NBA sa passare la palla nel modo giusto.
Mi aggancio ad uno dei tormentoni di coach Andrea Capobianco che giustamente afferma:
“ dire passa la palla bene ad un giocatore non significa nulla”.
Insegnare ad un giocatore come si passa la palla e soffermarsi su quale tipo di passaggio deve fare in base alla situazione di gioco ovviamente non è un male.
Nel caso della rimessa dei Raptors era un passaggio lob.
Mi chiedo tutti i nostri giocatori sanno veramente come si effettua un tale passaggio?
Per effettuare un tale passaggio ci vuole:
la tecnica
la forza, che deve essere tale da far arrivare la palla velocemente da un lato all’altro del campo in maniera precisa, con un Big man messo volutamente dalla panchina avversaria ad ostacolarne la visione ed il passaggio.
la lettura, bisogna “leggere” la situazione
nel caso che esaminiamo si deve leggere il tutto, in pochissimo tempo, per effettuare la rimessa ed effettuare un tiro a 5 decimi di secondo.
La lettura del gioco
E’ un aspetto molto complesso, che ci porta ad una discussione infinita.
Di solito in palestra lo stimolo esterno che hanno i nostri ragazzi è principalmente la nostra voce, che dopo un po’ puo’ stancare, ed allora:
perché non trovare altri stimoli da inserire durante i nostri allenamenti.
Coach Massimo Antonelli di Tam Tam Basket usa la musica per migliorare il gesto tecnico dei ragazzi, ma esistono altri strumenti per migliorare i nostri ragazzi.
In questi giorni ho visto un lavoro eccellente creato da Coach Massimo Riga che attraverso le luci, i colori, l’uso di cartelloni cerca di dare un approccio differente al lavoro in palestra.
Massimo Riga con la maglia della nazionale italiana
Senza gridare:
tieni la testa alta
usa delle lampade che rispondono a certi impulsi.
Posizionati in base al lavoro che intende effettuare danno la possibilità di non dover più gridare “testa alta”, oppure “passa la palla”.
(situazione tipica: il coach dice “passa la palla”, ovviamente lo sente anche l’avversario, e la palla viene rubata).
Usando stimoli diversi, i ragazzi reagiscono a questi stimoli ed il coach lavora, insieme al ragazzo, sul gesto tecnico.
Conclusione
Guardo – sento – leggo, dove, però, la lettura è frutto di un impulso non indotto dal coach ma è una reazione che il giocatore ha, vedendo quello che succede in campo.
Tornando alla rimessa Raptors tutti i giocatori vicino alla palla sono fermati dai cambi difensivi degli avversari mentre la luce si accende lontano dalla palla,
“ed io la vedo perché mi sono allenato a vederla”.
“Chiama un time out!”, “quando lo chiami il time out?!”.
Sono tra le frasi più urlate dagli spettatori a noi allenatori durante la partita, a testimonianza dell’importanza che lo stesso pubblico attribuisce a questo aspetto del GIOCO.
Facciamo però un passo indietro.
Il significato sportivo del termine Time Out è sospensione del tempo, ed era proprio questo il motivo per cui fu inserito nelle regole del nostro sport, ovvero dare la possibilità di riposo ai giocatori.
Era quindi una pausa momentanea dal GIOCO.
L’evoluzione della pallacanestro ha reso, invece, questa interruzione del “giocato” una fase concreta della partita, tanto da essere un’arma tattica che tutti noi allenatori dobbiamo essere in grado di sfruttare a pieno.
Il primo aspetto da tener conto è il numero di time out che ogni squadra ha a disposizione.
Si hanno un massimo di 7 time out per squadra, ognuno con durata di 75 secondi.
Possibilità di chiamare massimo 2 time out negli ultimi 3 minuti, più altri 2 per ogni eventuale supplementare.
Oltre la panchina (allenatore o vice allenatore) la richiesta può avvenire anche direttamente dal giocatore che possiede la palla.
Attenzione però, secondo la regola “televison time out“, durante ogni quarto ad ogni squadra viene obbligatoriamente assegnato un time out per ragioni televisivi anche se non chiamato dalle squadre stesse!
Proprio la gestione del numero dei time out, comporta una prima decisione strategica da parte dello staff.
È fondamentale, infatti, avere sempre ben presente quanti ne restano a disposizione, ipotizzando un loro utilizzo nei momenti decisivi della partita.
Questa scelta dipende molto dal feeling che lo staff tecnico ha con la partita e con i momenti di essa, rimanere senza può costare il risultato finale.
Quando chiamarlo?
Non c’è un’unica risposta a questa domanda.
Può esserci la volontà di modificare il ritmo della squadra avversaria, interrompendo per esempio un break positivo, ma può anche essere la soluzione per cambiare tatticamente delle scelte che non pagano e che hanno bisogno di essere mostrate con “calma“.
Altro significato è il time out chiamato in prossimità degli ultimi secondi di un quarto o per gestire meglio il possesso previa una violazione di tempo, in cui sfruttando una rimessa a favore si mostrano alla squadra le cosiddette situazioni speciali (a.t.o. plays).
Non sempre però la tattica è la protagonista della sospensione, ci sono time out il cui obiettivo è essenzialmente psicologico, dare una scossa ad una squadra o a singoli giocatori in difficoltà.
E’ in questo caso che la conoscenza dei caratteri dei propri uomini è fondamentale per andare a toccare le giuste corde per avere una reazione.
C’è chi ha bisogno del bastone e chi della carota!
Nella mia esperienza da assistente ho lavorato con head coach ai quali piaceva avere un mini time out con l’intero staff prima di comunicare con la squadra, richiedendo quindi sintesi e chiarezza nell’esposizione delle idee proposte, altri invece volevano avere tutto chiaro prima di rivolgersi al tavolo per chiamare la sospensione.
Da capo allenatore io ho sempre preferito la prima soluzione, sfruttavo quel momento anche per lasciare dei secondi sola la squadra affinché parlassero tra loro.
Non raramente, se c’è un’intesa consolidata all’interno dello staff, il capo allenatore lascia condurre il time out al vice, soprattutto se l’indicazione da presentare alla squadra è un’idea dell’assistente.
Importante, comunque, che non ci sia un un’accavallarsi di voci. I giocatori in quei pochi secondi devono avere la massima concentrazione, recepire poche cose ma chiare.
Peggio di non avere time out a disposizione è averlo ma con una squadra che ritorna in campo confusa!
Strategie
Alcune volte si sfruttano i pochi metri che separano le panchine dal campo per suggerire all’orecchio del giocatore le ultime indicazioni mentre il tavolo ha fischiato la fine della sospensione.
Altri che guardano negli occhi i propri giocatori prima di parlare.
Altri che utilizzano solo raramente la lavagnetta.
Conclusione
Ognuno ha la sua tecnica e il suo modus operandi, l’importante è organizzare e sapere cosa si vuol trasmettere in quel momento, senza lasciare nulla all’improvvisazione o chiamare il time out perché lo chiede il pubblico.
Bisogna sempre essere consapevoli di ciò che si sta facendo.
“Finalmente lo hai chiamato!!”…direbbe qualcuno dagli spalti…
Basta essere stati buoni giocatori per essere anche grandi allenatori?
Prescindiamo per una volta dai singoli sport, ma restringiamo però il campo almeno agli sport di squadra, che esigono dinamiche e competenze relazionali assolutamente diverse da quelli di tipo individuale.
Il caso del giorno, è evidente, riguarda Pirlo, neo allenatore della Juve.
La nomina ha fatto scattare, inevitabilmente, parecchie osservazioni sull’opportunità di nominare un allenatore che non ha mai allenato.
Provo a riassumere le principali osservazioni, assumendomi ogni rischio di tralasciare pareri importanti, ma solo a mo’ di sollecitare un approfondimento successivo che non ha alcuna pretesa di essere assoluto.
Tra le tante cose che lo sport insegna c’è il postulato che la sua dinamica è talmente complessa e mutevole da rendere impossibile una previsione che possa avere il requisito minimo dell’attendibilità.
La riflessione
Dunque, esattamente come hanno fatto i virologi parlando di un virus ancora sconosciuto, mi rendo perfettamente conto di addentrarmi in un terreno solo parzialmente conosciuto, per aver ricoperto un ruolo di allenatore per poco più di tre decenni (praticamente nulla), e di rischiare di intravedere dietro l’orizzonte un panorama dal pronostico complesso.
Secondo la mia concezione (ecco, con questa premessa rendo ogni argomentazione soggettiva, e quindi priva della presunzione dell’assolutezza), un allenatore è una somma perfetta ma non compiuta di una serie di competenze, delle quali l’ottima conoscenza del gioco ne costituisce solo una parte.
Veniamo al caso. Pareri discordanti, dicevamo.
Partiamo dai pareri favorevoli.
Primo aspetto: Pirlo è stato eccellente giocatore
Dai piedi ottimi e dalla presenza sempre percepita favorevolmente dal gruppo dei giocatori e delle squadre per le quali ha militato. Requisito a mio avviso che dice molto di più del suo talento.
Essere visto come parte integrante di squadre differenti testimonia una duttilità caratteriale, una personalità ed una identità non solo tecnica che non può che costituire un ottimo viatico per la carriera che si appresta a fare.
Secondo aspetto: conoscenza del gioco
Chi ha giocato molti anni a certi livelli il gioco lo conosce benissimo, ma se hai giocato nel ruolo di playmaker lo conosci senz’altro di più.
Non perché un difensore o una punta abbiano meno capacità di comprensione del gioco, ma indubbiamente se il gioco lo hai creato tu, e lo hai fatto benissimo e per molto tempo, penso che le tue capacità di compenetrarti in una dimensione che esula la tua individualità di giocatore costituisca un asset importantissimo per vedere le cose come coach.
Terzo aspetto favorevole: Pirlo, a detta di Ulivieri (uno dei responsabili dei corsi di Coverciano) è stato un allievo modello
Ha mostrato di conoscere il calcio a menadito (e questo lo avevamo supposto pure se non avesse frequentato il corso).
Non mi dilungherò su quanto un corso sia in grado di apportare significative competenze ad un allenatore specie per allenare a certi livelli, ma dirò subito che, sempre a mio sommesso avviso, da quel punto di vista la percentuale fa fatica ad arrivare alla doppia cifra.
Tra i pareri favorevoli si cita, in questi giorni, il paragone con esempi illustri che hanno fatto strabene nel passato, pur non avendo alcuna o poca esperienza come allenatore.
In casi simili si sono tirati in ballo mostri del calibro di Guardiola e Zidane. Paragoni difficili? Forse. Ma nella dinamica delle cose mi paiono azzeccati nel metodo, meno nel merito. Entriamo allora nel merito.
Ovvio: la scarsa (o inesistente) esperienza di panchina. Vuol dire poco questo?
Se esaminiamo i due big citati, non vorrei scomodare termini come carisma, personalità e via cantando, perché significherebbe porre il povero Andrea in una condizione di subalternità, e non me la sento per palese disconoscenza del suo livello nei temi suddetti.
Parlo solo di un’ultima cosa che a me pare evidente.
Un allenatore che si definisca efficace deve avere una certa capacità di persuasione, la qual cosa non equivale a manipolare, ma semmai a convincere i suoi giocatori ad abbandonare le proprie sacrosante individualità (la maggior parte dei giocatori nutre un egoismo che va spesso a discapito della complessità del gruppo).
Capacità di persuasione equivale in molti casi ad avere qualità comunicative e di estroversione che, devo essere onesto, in Pirlo ho notato assai poco.
Ovvio che il mio parere si fonda su quel che si vede (interviste, partecipazione a trasmissioni tv, ecc.) quindi mi rendo conto che, anche qui stiamo parlando di impressioni, ma non mi pare che il nuovo allenatore della squadra che è continuamente alla ricerca del tutto e subito, abbia mostrato scioltezza o approfondimento di argomenti e quindi concluso nel modo seguente.
Conclusione
Se Andrea dai piedi d’oro saprà unire alle indubbie conoscenze tecniche e tattiche da lui possedute, anche un netto miglioramento delle sue abilità di conoscenza dei complessi fattori umani che vanno sotto il nome di “dinamiche di gruppo”.
Saprà definire anche attraverso un netto incremento della sua capacità di comunicazione e di persuasione, un vocabolario che gli permetterà di gestire tanto la stella come l’ultimo ragazzo che viene dalle giovanili e coinvolgere tutti in una entusiastica partecipazione anche emotiva alle sorti del club che gli è stato affidato, beh, allora avremo probabilmente l’allenatore ideale.
Ed è, alla fine, quello che si augurano i tifosi della Juventus ed anche tutti quelli che sperano che un bravo e stimato giocatore senza alcun passato da allenatore possa diventare il coach del domani.
Tanto come sempre, il campo rivelerà la verità. In bocca al lupo!
Il sacerdote e i chierichetti sono nella sagrestia, prima che inizi la funzione religiosa.
È domenica: dalla porta principale della chiesa il vociare è sempre composto data la sacralità del luogo, ma nella sagrestia arriva lo stesso quel brusio tipico di quando la gente riempie i banchi.
La gente, quella massa che non riesci mai a distinguere quando stanno tutti assieme che sembrano formare un tutt’uno, quando non è ancora diventata una massa, la avverti, pure in un…
luogo di raccoglimento come quello.
Lo spogliatoio di una squadra di basket prima della funzione (pardon, prima della partita), ha molto di quel raccoglimento.
Questo luogo inviolabile e invalicabile a chi non fa parte di una ristretta cerchia di eletti, è uno dei luoghi più delicati, importanti e simbolici dello sport, sia di squadra che individuale.
Naturalmente le dinamiche tra sport individuale e di squadra sono diverse, ma quei muri, quelle panche e quegli armadietti, quegli attaccapanni e quella porta che delimita il confine, hanno visto e udito cose inenarrabili. Le hanno udite anche quando dentro quelle mura non parlava nessuno.
Il rito del pre-partita è uno dei momenti che nel basket, e in pochissime altre discipline, assume una sacralità totale. Più la partita assume un significato, più quel rito si fa intenso, assoluto, liturgico.
Il sacerdote che deve dare le disposizioni, nel basket si chiama in un altro modo, all’italiana è l’allenatore, ma è sempre più usato il nome di coach. Coach è la guida – ed è proprio una guida, in tutti i sensi il ruolo che lui esercita.
In genere il coach non è, come forse si può pensare, quello che tiene le chiavi dello spogliatoio, anzi è bene che si accosti a quel luogo anche lui con il rispetto che si deve a coloro i quali sono i veri protagonisti della funzione sportiva, che sono ovviamente i giocatori.
Lì dentro, dentro quella che è la loro casa temporanea, ciascun giocatore deve avvertire il suo spazio come se fosse il proprio habitat, egli deve contrassegnare il proprio territorio e sapere che nessuno – neppure il Coach – potrà usurparlo.
È una questione di sentirsi a proprio agio – una delle condizioni essenziali perché la sua prestazione sia ottimale. Non c’è giocatore al mondo che possa giocare bene, allenarsi bene, avere un buon rapporto con sé stesso, con i compagni e con lo staff, se non trova dentro quel rifugio una condizione di assoluta padronanza.
Il coach è bene che chieda permesso prima di entrare, non solo se si tratta di squadra femminile – lì scattano altri meccanismi -, ma anche se si tratta di una squadra di uomini, adulti o ragazzi che siano.
È un’antica forma di rispetto quella che deve usare, è anche attraverso questo simbolismo che lui dà il messaggio di non oltrepassare a suo piacimento quella linea immaginaria che separa il ruolo di guida dalla considerazione che deve avere per ciascuno dei suoi atleti.
Ci sono codici che non si imparano in nessun corso, che nessuna regola ti impone, ma che sono scritte indelebilmente dentro un rapporto trigonometrico: allenatori – staff -giocatori, che ha le sue regole precise, al violare delle quali si perde qualcosa dentro quelle formule che mantengono in equilibrio la cosa più delicata che vige all’interno di un team: il rispetto reciproco dei ruoli.
E poi, quando alla fine, lui varca quella porta, e la sacrestia si prepara alla funzione che avverrà poco dopo, è lì che il miracolo eucaristico dello sport trova la sua più intensa realizzazione.
Una volta usciti tutti assieme, la squadra ha perso le sue singole individualità e si trasforma in una macchina perfetta nella quale ciascuno ha un compito preciso.
La gente – quella massa indistinguibile che nel frattempo ha preso posto sui banchi – a quel punto, saprà che il rito è pronto per il suo compimento.
Alcuni giocatori pensano, erroneamente, che giocare molte partite sia tutto ciò di cui hanno bisogno per restare in forma.
Il giocare, semplicemente, una partita non stimola adeguatamente quelle qualità fisiche necessarie per elevare le abilità specifiche del basket o a qualsiasi altro sport ad un livello più alto.
Oltre alle componenti di buona forma fisica e buona prestazione atletica, un giocatore…
di pallacanestro o un atleta in genere, deve adottare la filosofia dell’allenamento totale che include tutte quelle variabili atletiche che tratteremo nei prossimi approfondimenti compresa la sicurezza.
Prima di realizzare un qualsiasi programma di allenamento bisogna assicurarsi di mirare ai maggiori benefici fisici diminuendo al massimo le circostanze negative che potrebbero causare infortuni. Questo fa parte in effetti delle responsabilità dell’allenatore e del preparatore fisico, ma anche gli atleti devono fare la loro parte ed usare del buon senso.
Elenco alcune, generali, misure di sicurezza da seguire durante un programma di allenamento che come al solito possono sembrare banali ma che non si può, per nessun motivo, evitare:
Effettuare sempre una giusta attivazione, lo stretching (in dinamicità), prima dell’allenamento, ed il defaticamento dopo la seduta.
Al di là del condizionamento fisico di fondo, è fondamentale preparare il corpo all’attività sportiva con un incremento graduale e complessivo dell’impegno muscolare cardiovascolare che costituisce il “riscaldamento”.
Messo a regime, il corpo sopporta molto meglio carichi di lavoro intensi ma anche il graduale ritorno alle situazioni di riposo.
Attraverso un progressivo rallentamento dell’attività e attraverso il recupero di un tono muscolare più rilassato è un utile strumento di prevenzione dei danni da sport;
Evitare per qualsiasi motivo tiri a freddo dalla lunga distanza o qualsiasi gesto tecnico che necessita di un evidente sforzo muscolare;
Tenere il campo da gioco libero da ostacoli e pulito in caso di parquet;
L’interazione tra l’atleta e il terreno di gioco è stata studiata approfonditamente dalla biomeccanica con il duplice scopo di ottimizzare l’espressione del gesto sportivo e di ridurre l’incidenza di traumatismi.
L’introduzione di materiali sintetici sempre più perfezionati ha modificato sensibilmente la natura e l’incidenza dei traumi di gioco.
D’altra parte i nuovi terreni hanno un differente comportamento dal punto di vista dell’aderenza della scarpa al terreno, che inizialmente ha prodotto un aumento dei traumi distorsivi.
Alcuni studi indicano nell’insieme un beneficio in termini di ridotta incidenza degli infortuni, attribuibile ai terreni sintetici rispetto a quelli naturali, soprattutto negli sport di squadra. Dobbiamo tenere conto, oltre che dei traumi acuti, dell’insidia delle lesioni micro traumatiche ripetute.
Un terreno rigido come un pavimento in cemento e linoleum assorbe ben poca dell’energia scaricata in salti ripetuti e perciò favorisce microtraumi del piede, dell’arto inferiore e della colonna. Ben diverso è l’effetto di un parquet elastico. La superficie inoltre può essere più o meno sdrucciolevole.
fondo in cementofondo in parquetfondo in erbetta
Alcune Federazioni sportive hanno adottato come regola la posa temporanea di terreni sintetici in tutte le competizioni (avviene per esempio nella pallavolo), con lo scopo di ottimizzare la presa del terreno e ridurre i possibili traumatismi
fondo in sintetico
Far utilizzare scarpe che diano una corretta stabilità laterale, sufficiente ammortizzamento dei talloni e buon supporto plantare;
ll carico di lavoro va adeguato gradualmente alle capacità prestative del soggetto.
Questa affermazione apparentemente banale presuppone però una solida base di conoscenze tecniche che serve a poter giudicare il singolo atleta nello specifico momento.
L’uso di tabelle di lavoro standard può essere una piattaforma di partenza, ma rischia di non rispondere adeguatamente alle esigenze specifiche. Tanto un carico troppo lieve, quanto uno eccessivamente gravoso sono potenziali fonti di infortunio nella pratica dello sport.
Se un gran numero di giocatori è coinvolto nell’esercizio, bisogna comunicare efficacemente per evitare collisioni e quindi per quanto non completamente necessari, attrezzi come i coni, cinesini e gli adesivi che indicano i punti di tiro e le corsie di passaggio sul pavimento, aiutano ad eliminare la confusione e servono a mantenere il movimento fluido e sicuro.
Un aspetto, fondamentale, che, purtroppo, non viene preso molto in considerazioneè quello di consentire un adeguato riposo e recupero agli atleti a secondo della forma dei singoli ed al livello di tolleranza dei lavori svolti nelle sedute.
In questo articolo affronterò un aspetto del mio lavoro che ritengo avere un significato ed un’importanza fondamentale nell’organizzazione e nella realizzazione di una stagione lavorativa: il lavoro svolto ancora prima dell’inizio del raduno.
Faccio riferimento ad un periodo di circa 2 mesi, immediatamente dopo la formazione dello staff tecnico e ben lontani dal campo e dalla palestra in cui la conoscenza e l’intesa tra il capo allenatore ed i suoi assistenti viene affinata e, dalla quale, attraverso il confronto, vengono pensate e gettate le fondamenta della squadra.
L’allenatore, di concerto con i suoi collaboratori,…
stabilisce le linee guida sia tecniche che gestionali, l’organizzazione delle settimane lavorative, il numero di allenamenti, gli orari, il numero degli atleti del settore giovanile aggregati alla prima squadra, in particolar modo, durante il periodo della preparazione pre – season.
Tanti sono gli incontri, anche con i dirigenti che lavorano a più stretto contatto con lo staff, con il fine di creare un corpo unico, punto focale per il raggiungimento degli obiettivi.
Le riunioni e l’organizzazione del lavoro sulle quali in questo contesto voglio porre maggiormente l’attenzione e sottolineare, avendo un ruolo fondamentale per la riuscita positiva della stagione, sono quelle che avvengono nei primissimi giorni dopo la formazione dello staff: la scelta del roster.
È un momento molto delicato, dove gli eventuali errori che possono verificarsi nella scelta dei giocatori, si ripercuoteranno con conseguenze negative per tutto l’anno; sbagliare la chimica di una squadra può essere fatale, non avendo tempo per porvi rimedio.
In uno sport di squadra, in questo caso la pallacanestro, ma, passatemi la mia affermazione critica “a causa della presunta -cultura- sportiva italiana”, il risultato deve essere immediato.
Si parla di pochi mesi se non settimane e, molto spesso, non si ha nemmeno il tempo per rimediare ad un errore di costruzione pagando con il posto di lavoro, il cosiddetto ESONERO.
Ciò nonostante è un lavoro molto stimolante, dove si uniscono speranze e convinzioni, dove nelle menti degli allenatori e dei suoi assistenti si forma il disegno del team e di come si vorrebbe che si giocasse.
Si visionano parecchi video, è il momento in cui si traggono i frutti di un lavoro che ormai tutti gli allenatori e gli assistenti svolgono durante l’anno, il lavoro di scouting!
Ognuno ha il suo sistema per dar vita ad un vero e proprio database.
I giocatori vengono divisi in base ai ruoli, alla nazionalità o in altri casi per passaporto, in base ai campionati in cui hanno giocato, per poi assegnarli un giudizio sulle proprie caratteristiche e sulla loro possibile adattabilità al campionato.
Discorso leggermente diverso per gli atleti seguiti da diversi anni, a cui viene assegnato, oltre a quanto detto prima, anche un giudizio riguardo i loro miglioramenti e la loro crescita. Può verificarsi che non sono adatti o pronti in un determinato anno, ma che diventano i prescelti per un altro.
É il momento di intensificare, con cadenza quotidiana, i contatti con le varie agenzie di procuratori che forniscono le loro liste di giocatori e i video dei loro assistiti. È il momento di continui confronti e di redarre report da presentare ai dirigenti responsabili.
Giornate lunghe, spesso finiscono a notte fonda, alcune positive, molte altre deludenti per non essere riusciti a “firmare” un obiettivo, ma sempre utili per accrescere le proprie conoscenze in termini di giocatori.
Negli ultimi anni la difficoltà di reperire video e immagini di giocatori è notevolmente ridotta. Non è più una sorpresa ritrovarsi a visionare highlights o partite con poco significato. Qui la critica, sempre costruttiva, è verso i procuratori che, nel tentativo di promuovere i loro clienti , esaltano in maniera troppo evidente le gesta, rischiando di essere poco attendibili e funzionali alla causa.
Credo, invece, sia importante verificare anche il perché un determinato giocatore abbia giocato male e in che modo sia stato messo in difficoltà.
Per ovviare un pò a questa problematica entra in gioco la rete di contatti con altri colleghi o dirigenti di fiducia che ogni allenatore deve avere per poter prendere informazioni (reciproche) anche e soprattutto personali su un possibile acquisto.
La differenza, in un gioco di squadra, la fa il gruppo, la chimica che si riesce ad instaurare, insomma: il giusto equilibrio tra ruoli e uomini.
L’assistente deve operare una prima scrematura dei vari profili da sottoporre al capo allenatore e al manager e tutto ciò richiede una totale fiducia nelle capacità del collaboratore. Da qui la necessità di scoutizzare in maniera autonoma i giocatori e di redigere report precisi che forniscano una valutazione ben codificata (si possono usare punteggi, stelline e stilare classifiche ruolo per ruolo).
É fondamentale, quindi, il confronto sincero e schietto, in alcuni casi anche intenso, ma sempre nel rispetto dei ruoli e degli obiettivi comuni.
Fatta la squadra, si prendono contatti con i giocatori singolarmente, fornendo loro utili informazioni tecniche e tabelle di lavoro personalizzato affinché si presentino al raduno già con una condizione generale “accettabile”. Il tempo è tiranno in molti casi come in questo.
Ultimo aspetto a cui voglio far riferimento è l’organizzazione delle amichevoli e dei tornei preseason, lavoro più arduo di cui si possa pensare.
Negli ultimi anni si deve sempre più convivere con esigenze economiche restrittive nel trovare non meno di 10 partite amichevoli prima del campionato, ricerca che impiega molto tempo e fatica.
Anche in questo caso i contatti con colleghi e dirigenti ci vengono in soccorso, ed è bene mantenerli ed alimentarli durante tutto l’anno, sia per una miglioria reciproca che per interessi lavorativi di entrambi.
Spero sia stato in grado di far capire che mole di lavoro bisogna affrontare, dove si avverte la responsabilità di ciò che si sta facendo, si ha la percezione di dover sbagliare il meno possibile e, aspetto quasi incredibile, è un lavoro che molto spesso le società di appartenenza non riconoscono contrattualmente.
Infatti, nella maggior parte dei nostri contratti, si fa riferimento al raduno come inizio della stagione, dimenticando di tutto ciò che viene prima, che, come più volte sottolineato, ha un valore estremamente importante.
Credo sia il periodo lavorativo più condizionante, in cui si pongono le basi affinché si possa avere una stagione di successo.
Un giorno che non ti aspetti vedi il mondo da un altro punto di vista. Fino al giorno prima eri certo che ci fosse qualcosa che ti piacesse e basta, anzi no, qualcosa di cui eri innamorato fino a perdere il sonno, ma che stava lì, era davanti a te e tutto quello che ti interessava era quel rettangolo, un paio di canestri alle estremità, una decina di giocatori che andavano avanti e indietro tra cui c’eri anche tu.
Fine.
Poi quel giorno scopri che dietro quel rettangolo c’è altro.
Altro a volte è poco, pochissimo, ma a volte, come questa, è tutto.
È il mondo che non conoscevi, sono i segreti che permettono a quei dieci matti di stare lì per ore e ore a gettare il sangue, è capire ogni singolo movimento a cosa serve e come quel movimento può…
migliorare per far sì che la squadra per cui tu sei schierato, può vincere.
Detta così, nulla di strano.
È la professione di allenatore, quella che ci fa ammattire i giorni e le notti per cercare quello schema, quella modalità, quella strategia, a volte persino quella parola che, messa sulla bilancia impercettibile delle emozioni, fa capovolgere il risultato di quel pizzico che serve ad andare in paradiso oppure precipitare all’inferno.
Già, perché è questo ciò che succede in una partita.
Ogni volta sei in bilico sul baratro, con i piedi già mezzo fuori, e la palla che danza sull’anello all’ultimo secondo e decreta come il più severo giudice se precipiterai oppure se potrai tornare quel mezzo passo indietro per salvarti la vita.
E la settimana dopo si ricomincia, e poi di nuovo, e di nuovo ancora. Gioia e maledizione, inferno e paradiso, gloria o polvere. E la capacità di un allenatore sta nel non ingoiare tanta polvere quando è costretto a cadere né beatificarsi troppo quando quella la palla è entrata.
Una volta la nostra formazione tecnico tattica la facevamo sui libri oppure, al massimo, guardando la televisione e ascoltando i commenti di Aldo Giordani (quello che inventò la parola “bombe” quando qualche giocatore dell’Ignis, della Sinudyne o della Simmenthal centrava il tiro da tre punti).
Oggi la formazione è diventata più multitasking e la facciamo sul web, con i Pao o con le app, ma insomma, cambiano gli strumenti senza mutare, di una sola virgola, lo scopo ultimo: quello di mettere la palla arancione dentro un anello arancione e, per converso, impedire che gli avversari facciano la stessa cosa.
A un certo momento a quelli che fanno (o, come me, che hanno fatto) questo lavoro, ogni tanto sentono qualcuno di quelli super bravi – perché allenano in America o all’est – che un giorno dicono una cosa nuova e quella cosa sembra bella e meravigliosa solo perché l’hanno detta quelli, perché se la stessa cosa la dicesse il giovane allenatore del campetto dei salesiani allora sarebbe una stronzata colossale.
Se hai un minimo di sale in zucca è lì che capisci la verità.
Capisci l’unica verità che riguarda tutti, proprio tutti quelli che ruotano intorno a questo pazzo sport, e cioè l’unica verità è la più banale e assurda delle verità, ed è che non c’è nessuna verità.
Perdiamo gli anni, i decenni, a insegnare la biomeccanica del tiro, la scienza ergonomica della posizione, dei piedi, delle ginocchia, dei gomiti eccetera, con tutti i millimetrici meccanismi che regolano il gesto più importante di questo sport, dopodiché arriva uno che tira con entrambe le mani da dietro la nuca, la palla nemmeno la guarda, gli parte in una posizione di completo disallineamento tra occhi, mani, arti inferiori e superiori, eppure fa sempre canestro, e allora capisci che le regole sono una follia.
Ci sono solo due cose: le eccezioni e il cuore, e queste sono le uniche cose di cui non puoi fare a meno.
Il basket è un po’ come l’amore: è una gran fortuna che nessuno lo sappia spiegare fino in fondo.
Ah per la cronaca, quel giocatore esiste davvero e faceva canestro per davvero e tirava veramente in un modo impossibile e si chiamava Mike Sylvester.
Chiedi chi erano i Beatles e qualcuno forse si ricorderà anche di lui.
Mi piacerebbe partire da un concetto che mi è stato trasmesso da coach Antonio Petillo, uno dei formatori italiani con una esperienza infinita come allenatore di gruppi giovanili, e cioè che se vedete che quello che state proponendo ai vostri ragazzi è troppo difficile o comunque vedete che non vi possono seguire “fate un passo indietro” …
Questo concetto racchiude un insieme di cose che vanno dai fondamentali, dalle ore di allenamento che hai a disposizione, dalla possibilità o meno di avere al tuo fianco un assistente o addirittura un preparatore atletico, ma soprattutto che lo sport in generale ed il basket in particolare non è improvvisazione.
Se i giocatori che alleni non sanno tirare, oppure palleggiare oppure passare la palla allora diventa difficile fare altro.
Se non sanno correre e fare dei movimenti come quelli del basket che non sono naturali allora poi diventa difficile proporre altro.
Se poi hai a disposizione al massimo tre allenamenti a settimana di scarso due ore devi per forza di cose fare una scelta.
“Fate un passo indietro” significa anche sapere leggere la situazione ed avere ben presente chi sto allenando.
Il coach ha questo compito, non semplice, di capire con chi si rapporta in palestra, non tutti sono allenatori di gruppi selezionati, composti da ragazzi scelti e che vogliono fare da grandi i giocatori di basket e che ovviamente hanno altre motivazioni rispetto al gruppo che normalmente si allena e che è composto da ragazzi o ragazze che condividono con te solo una grande passione.
“Fate un passo indietro” significa anche non essere presuntuosi, in giro ci sono tantissimi coach con il colletto della polo alzato e che poi di fatto in palestra spiccano solo per il look. Spesso si pensa di sapere ma poi il confronto con altri allenatori ti fa capire che il “io so” è un concetto relativo.
“Fate un passo indietro” però al netto della presunzione ha in sé un significato fondamentale che io so qual è il punto di partenza e qual è il punto di arrivo.
Il mondo del web è pieno di immagini pazzesche con giocatori che fanno sembrare facili cose difficilissime ed allora ci sono due strade da seguire scimmiottare quel giocatore con risultati alquanto discutibili oppure “smontare” la costruzione di quel movimento e proporre il fondamentale che è frutto di quel movimento.
Per allenare un gruppo giovanile infine sarà fondamentale sapere la barca in quale direzione deve andare, conoscere le caratteristiche della barca.
Non si può fare “ un passo indietro” nel cuore che ci si mette nel fare il coach: per i ragazzi sei credibile solo se loro sentono che stai dando qualcosa, che la tua passione ed il tuo lavoro è vero.
Atleti di qualsiasi età e sesso ti seguiranno quando sentiranno che sei VERO ed è questo l’unico ponte che va oltre i luoghi comuni tipo “i giovani di oggi non hanno voglia di lavorare in palestra”, perché nel momento in cui capisci che la tua passione verso questo sport è condivisa con chi alleni in palestra allora inizi ad assaporare il gusto della soddisfazione di fare il coach di gruppi giovanli!!!